In particolare è proprio nel campo del simbolo che, quantomeno in Occidente, si è compiuto un distacco da una tradizione ultramillenaria con il risultato che tutta una serie di contenuti, di preponderante e universale importanza, sono venuti meno o restano incompresi. Ma oggi ci si comincia a chiedere se il vero nocciolo della rivoluzione dell’arte moderna – da un lato il disinteresse dei critici per il significato dell’opera d’arte e dall’altro il disinteresse degli artisti per il soggetto ed il motivo – non sia tanto la rinuncia alla figuratività per l’astrazione, ma piuttosto, per quanto in precedenza si descriveva, il disprezzo e l’oblio per questi contenuti che animavano pressoché ogni forma della realtà dandole una quarta dimensione, un’efficacia e profondità magica.
D’altra parte queste figurazioni non furono certo il parto cripticamente pagano di un momento polemico, ma comportarono uno studio e un lavoro di mesi o di anni
Non possiamo dire con certezza cosa originariamente indusse Sigismondo Pandolfo Malatesti al punto di adattare la teologia neoplatonica per fare del Tempio un monumento alla propria apoteosi come un sole-dio. Forse i suoi consiglieri carpirono un suggerimento dall’Inno a Helios di Giuliano l’Apostata; forse Leon Battista Alberti rievocò scambi con Gemisto Pletone, il cui corpo riposa nel Tempio, al Concilio di Ferrara-Firenze
Dev’essere stato molto triste il breve tramonto di Sigismondo, minacciato di "trasferimento" dal papa e ormai costretto a farsi proteggere da occhiuti e interessati veneziani. Aveva puntato su una gloria imperitura affidata soprattutto a un edificio che ormai non avrebbe mai potuto terminare, e certo si rendeva conto che quell’opera era destinata a eternare non la sua gloria, ma il suo fallimento. Combatté in Morea contro i Turchi, e al ritorno (1464), stanco e malato, vi riportò trionfalmente le spoglie di Pletone. Forse un altro indizio della sua appartenenza a circoli segreti (erano tanto segreti che non hanno lasciato prove, ma se ne sospettava l’esistenza) e dai rapporti tra la cerchia riminese e quella fiorentina e romana si ricava quantomeno l’appartenenza ad una cerchia intellettuale, in humus fertile come quello riminese che propugnava determinate concezioni e che non si rivelava tranquillamente, anche per timore di contraccolpi.
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