mercoledì 9 marzo 2011

La mia prima conferenza sul Tempio Malatestiano: 23 ottobre 2000

 

ASPETTI PAGANI DEL TEMPIO MALATESTIANO

 

Con questa conferenza ho cominciato a introdurre un po’ di incongruità nella consueta lettura del Tempio Malatestiano, in altre parole ho attirato l’attenzione su una serie di elementi, che, difficilmente trovavano varchi o trovavano posto nella sintesi della configurazione proposta sull’epoca dello splendore malatestiano. Inserire tra le maglie di un ordine consueto, una manifestazione che appartiene ad altre rubriche o, in altre parole, introdurre in un pensiero rigido, bloccato, artificialmente delimitato, tanto da apparire come morto rispetto al pensiero indefinito, complesso e mobile che si riflette nei simboli, è il miglior segno di rispetto verso la libertà di ricerca. Come insegna la storiografia, la vera fortuna di una ricerca si ha quando i suoi risultati non vengono accettati in blocco, ma continuati e ridiscussi. Se ciò non accade è perché domina il provincialismo non solo scientifico, ma morale. In realtà facciamo quello che ha fatto Sigismondo, introdurre nel vigente aristotelismo e cristianesimo, il platonismo ed un’antichissima religione solare, nella convinzione che ogni cosa più antica fosse e più pura fosse, perché più vicina al principio divino.

In particolare è proprio nel campo del simbolo che, quantomeno in Occidente, si è compiuto un distacco da una tradizione ultramillenaria con il risultato che tutta una serie di contenuti, di preponderante e universale importanza, sono venuti meno o restano incompresi. Ma oggi ci si comincia a chiedere se il vero nocciolo della rivoluzione dell’arte moderna – da un lato il disinteresse dei critici per il significato dell’opera d’arte e dall’altro il disinteresse degli artisti per il soggetto ed il motivo – non sia tanto la rinuncia alla figuratività per l’astrazione, ma piuttosto, per quanto in precedenza si descriveva, il disprezzo e l’oblio per questi contenuti che animavano pressoché ogni forma della realtà dandole una quarta dimensione, un’efficacia e profondità magica.
D’altra parte queste figurazioni non furono certo il parto cripticamente pagano di un momento polemico, ma comportarono uno studio e un lavoro di mesi o di anni
Non possiamo dire con certezza cosa originariamente indusse Sigismondo Pandolfo Malatesti al punto di adattare la teologia neoplatonica per fare del Tempio un monumento alla propria apoteosi come un sole-dio. Forse i suoi consiglieri carpirono un suggerimento dall’Inno a Helios di Giuliano l’Apostata; forse Leon Battista Alberti rievocò scambi con Gemisto Pletone, il cui corpo riposa nel Tempio, al Concilio di Ferrara-Firenze
Dev’essere stato molto triste il breve tramonto di Sigismondo, minacciato di "trasferimento" dal papa e ormai costretto a farsi proteggere da occhiuti e interessati veneziani. Aveva puntato su una gloria imperitura affidata soprattutto a un edificio che ormai non avrebbe mai potuto terminare, e certo si rendeva conto che quell’opera era destinata a eternare non la sua gloria, ma il suo fallimento. Combatté in Morea contro i Turchi, e al ritorno (1464), stanco e malato, vi riportò trionfalmente le spoglie di Pletone. Forse un altro indizio della sua appartenenza a circoli segreti (erano tanto segreti che non hanno lasciato prove, ma se ne sospettava l’esistenza) e dai rapporti tra la cerchia riminese e quella fiorentina e romana si ricava quantomeno l’appartenenza ad una cerchia intellettuale, in humus fertile come quello riminese che propugnava determinate concezioni e che non si rivelava tranquillamente, anche per timore di contraccolpi.
 


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