Oggi mi è arrivato l'ultimo numero de L'ACACIA, che contiene un mio articolo.
Il riferimento bibliografico è: Moreno Neri, "Pitagora: la sua politica, la nostra Massoneria", in L'Acacia N. 1 - 2010, pp. 29-37. Purtroppo nella pubblicazione a stampa del testo sono andate perdute tutte le note (così imparo a non chiedere le bozze da correggere!).
L'articolo è la rielaborazione del mio intervento al convegno intitolato "da Pitagora all'Imperium", tenutosi a Roma il 5 marzo 2763 ab U. c. (2010 Era Volgare), in occasione dei festeggiamenti per il 150° anniversario della fondazione del Rito Simbolico Italiano.
In ogni caso, è da tempo on line sul web, ospitato nella sezione "Memoranda" del forum de La Cittadella a
questo link.
Ad ogni buon conto lo ripropongo in questo post, con tutte le sue note, e ci aggiungo anche quattro immagini con le relative didascalie.
PITAGORA:
LA SUA POLITICA, LA NOSTRA MASSONERIA
Nella
storia della filosofia quello del Pitagorismo è uno dei problemi più
disagevoli. Questo perché — come è noto — la maggior parte e più precisa della
nostra documentazione proviene dal Pitagorismo rinnovellato degli ultimi anni
della Repubblica romana e dei primi quattro secoli della cosiddetta era
cristiana attraverso i neoplatonici. Dunque le nostre fonti sono Diogene
Laerzio, le vite di Pitagora di Porfirio e Giamblico, solo per fare i nomi
delle autorità più celebri.
È
dunque immediatamente comprensibile come in queste tarde fonti vi possa essere
stata la tendenza ad arricchire l’antico Pitagorismo di gran parte dell’apporto
della filosofia posteriore, soprattutto platonica e stoica. Bisogna tuttavia
ricordare che, tra l’antico pitagorismo del IV sec. a.C. e la sua rinascita
alla fine della prima metà del I sec. a.C., non sono poche le testimonianze che
attestano come la tradizione della “scuola italica” non si spense. Fu negli
ambienti romani che il Pitagorismo trovò gli adepti più ferventi (Posidonio
d’Apamea, Nigidio Figulo, Statilio Tauro). Va infine sottolineato che nella
serena visione di tolleranza degli Antichi — così come accadeva in ambito
religioso — quelle che noi moderni “categorizziamo” come correnti filosofiche
non costituivano mai un sistema chiuso e blindato, ma aperto ed integrabile.
Pitagorismo, Platonismo (diretto discendente del primo) e Stoicismo avevano
motivi e temi fondati su una prospettiva enoteistica che ne facilitavano un’armoniosa
fusione. Le uniche eccezioni a questo intrinseco sincretismo erano costituite
dal materialismo epicureo e dallo scetticismo.
D’altra
parte, il fatto che le fonti su Pitagora siano “tarde”, ossia assai distanti
nel tempo dal periodo in cui visse Pitagora e fiorì la sua Scuola, non deve
essere motivo soverchio di preoccupazione. Noi studiosi spesso ci dimentichiamo
di dire e spiegare che presso gli Antichi — dove non esisteva la nozione
moderna di “diritto d’autore” e tantomeno quella negativa di “plagio” —
scrivere era spesso un’opera di compilazione. Copiare da autori precedenti che
si erano occupati del medesimo soggetto, ricombinare al meglio tutti gli
elementi esistenti che si era riusciti a reperire era la cifra e il metodo
normale dell’Antichità. Si trattava, per farci intendere con una terminologia
della contemporaneità (si pensi alla musica o al web), di un metodo non
dissimile da quello del “remix” o della “campionatura”, oggi favorita dalle
nuove tecnologie e da un concetto di diritto d’autore sempre più labile. Con
ciò si vuol dire che le notizie che abbiamo su Pitagora e sui Pitagorici
beneficiano comunque, a causa del loro metodo compilatorio, di un sufficiente
sostrato di vetustà e autenticità.
Ma
tanto è leggendaria la figura di Pitagora, quanto resta nebulosa la sua reale
posizione politica, anche se non ci sono dubbi sulla sua grande influenza
politica sulle città dell’Italia meridionale. Aristosseno ci parla infatti
genericamente del desiderio delle poleis di
consegnare ai Pitagorici la guida politica. In genere si presuppone come ideale
pitagorico quello dell’aristocrazia, ma meglio sarebbe parlare di “aristocrazia
di metafisici”. Nicomaco d’altra parte descrive l’attività politica di Pitagora
in modo tale da farcelo immaginare come, se non proprio un democratico,
quantomeno un liberale convinto (“con i suoi discorsi, riempì le città di
dottrine di libertà e le liberò”), inducendo persino un tiranno siciliano a
rinunciare al potere e a dividere le sue proprietà tra la sorella e i cittadini.
Come nemico della tirannide ci viene descritto da Giamblico e da Aristosseno;
ancora più anticamente Neante (tardo IV sec. a.C.) descrive lo stesso
atteggiamento di amanti della libertà o antitirannici dei Pitagorici. Al tempo
stesso vi sono anche descrizioni assai differenti, anzi, si direbbe opposte,
che giungono fino al biasimo di aver tentato, lui o i suoi discepoli, di
instaurare la tirannide. Le fonti sono Dicearco e Teopompo. Lo stesso Diogene
Laerzio ci riferisce come le rivolte contro i Pitagorici fossero state state
provocate da queste ragioni e che questa non era un’opinione di pochi.
Senza
dubbio questi sono dati che ci dicono poco sulla vera concezione politica di
Pitagora, prima di tutto perché il loro interesse è spostato sulle rivolte antipitagoriche,
motivate democraticamente e comunque scoppiate alcuni decenni dopo la morte di
Pitagora. In ogni caso i risultati confermano come può essere contraddittoria e
divergente la tradizione su Pitagora. Al punto tale che la tradizione, incurante
dei rapporti cronologici, ha fatto discepoli di Pitagora i più grandi
legislatori italici: a cominciare dal secondo re di Roma Numa, per non parlare
di Zaleuco, Caronda, Timarato, Teeteto, Elicaone, Aristocrate, Fizia. E come
ultimi rampolli della scuola pitagorica Archita di Taranto e il tebano
Epaminonda.
D’altra
parte, tutti gli studiosi concordano sul fatto che nel secolo in cui visse
Pitagora, in quasi tutte le colonie greche si viveva un momento storico
decisivo. Si affacciava una nuova classe sociale, nata grazie allo sviluppo del
commercio e della pirateria. Si assisteva dunque a un rapido processo di
trasformazione politica ed economica che, se per una classe rappresentava un
fattore di sviluppo e di progresso, per altre rappresentava un fattore di
disordine e di caos.
Notissimo è il racconto che vuole
che Pitagora sia stato il primo a inventare il termine filosofo. Si ha
l’impressione che filosofia e politica si presentino sulla scena, in quel
tempo, quali risposte alla scomparsa degli dèi sulla terra. Ma la via del
filosofare è riservata a pochi.
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Ritratto immaginario di Pitagora.
Da André Thevet, Les Vrais Pourtraicts et vies des hommes illustres, grecs,
latins et payens recueillis de leurs tableaux, livres, medailles antiques et
modernes …, G. Chaudière, Paris, 1584.
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L’uomo — così si racconta che
Pitagora spiegò a un tiranno — entra nel mondo come a una panegiria, ossia a una festa, una
fiera: allo stesso modo infatti alcuni vi partecipano per lottare, altri per
commerciare, altri ancora, e sono i migliori, per assistervi; così nella vita,
diceva, alcuni nascono schiavi della bramosia di gloria e del comando, folli di
rivalità, altri cacciatori di ricchezza e lusso, infine vi sono i filosofi
della verità, coloro che contemplano l’universo, le cosa più belle.
Cosa si può esigere da chi
assiste a questa festa, se è un iniziato? Che osservi, evidentemente, e che
faccia ogni sforzo per cogliere bene ciò che vede. Tale è l’obiettivo
dell’iniziato. Egli è fatto per esaminare, con tutta la perspicacia di cui è
capace, “il Primo, cioè la natura dei numeri e dei rapporti”, ossia la natura
degli esseri, le loro relazioni e le ragioni del loro stesso divenire.
Si può dunque essere presenti nel mondo in parecchi modi, così come si può
assistere in diversi modi ad una festa o ad una fiera. Si può prendere parte
alle attività mercantili, acquistare o vendere del bestiame, senza interrogarsi
sui princìpi di questo commercio e di questa fiera. Si può, viceversa, adottare
l’atteggiamento di quelli che ricercano i princìpi delle loro attività.
Parimenti, nel mondo, si può essere attratti dalla ricchezza e dal lusso, come
mandrie di bestie che di niente si preoccupano più che del foraggio, senza
quindi pensare ai princìpi di queste attitudini e di queste attività. Resta il
fatto che possiamo — e tale è l’atteggiamento del saggio — interrogarci sui
princìpi delle nostre attività nel mondo e farli nostri, ossia adottare un
atteggiamento teoretico. Esso consiste nel chiedersi cos’è il mondo e chi lo
governa, chi siamo, per cosa veniamo all’esistenza e per compiere quale opera,
se abbiamo qualche legame e una relazione con l’essere che governa l’universo.
L’esoterismo,
insomma, non sfugge a quest’obbligo di formulazione e di riadattamento permanente
di verità eterne che è il marchio di tutto il pensiero dell’uomo occidentale;
esso sembra legato alla volontà stessa di superamento, d’impegno individuale di
conquista dell’assoluto in un universo mentale in cui la Tradizione gioca un
ruolo fondamentale.
Quanto alla Tradizione, sempre
Giamblico ci dice che Pitagora parlava ai giovani
“mostrando che nell’universo, come nella vita, nella città e nella natura in
genere, ciò che viene prima in ordine di tempo è venerato più di quanto viene
dopo”.
Diogene Laerzio
ascrive a Pitagora tre opere: sull’educazione, sulla politica, sulla natura. Questi tre scritti, se sono esistiti e non c’è motivo di dubitarne, sono andati perduti. La tradizione ci conferma, se ancora ve
ne fosse bisogno, che la dimensione politica era al centro dell’attenzione del
nostro Pitagora.
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Pitagora e la Musica. Cattedrale
di Chartres, Archivolto del portale di destra della facciata occidentale,
1145-55.
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La frattura tra
l’autorità regale, da cui discendono i diversi poteri dello Stato e le varie
funzioni di governo, e le nuove forme partecipative che si affacciavano alla
ribalta nella Grecia del V secolo a.C. (ivi inclusa, ovviamente, la Magna
Grecia), doveva essere in cima alle preoccupazioni di Pitagora. Come ben
sintetizza Cristoforo Andreoli: “Il confronto in assemblea e la ricerca di una
mediazione fra opinioni non disciplinate da un fattore trascendente di
unificazione, sono il segno della scomparsa di quest’ultimo dalla regola di
vita della comunità. Il rilievo esclusivo assunto dalla componente
partecipativa, oggi intesa alla stregua di sinonimo della politica, è perciò la
condizione che inevitabilmente consente l’esercizio di poteri e funzioni regali
a individui inadatti ad assolverli”.
È
indubbio che Pitagora, attraverso l’istituzione della sua rigorosissima Scuola,
doveva essere profondamente convinto che la costituzione più perfetta di uno
Stato corrisponderebbe invano alle mire del più saggio legislatore, qualora la
custodia di essa non fosse affidata costantemente a uomini degni di eseguirla.
Di qui la necessità di una iniziazione a una nuova regola di vita. La sua
associazione era aperta anche alle donne, come dimostra il celebre esempio di
Teanò (nonché le numerose altre menzionate da Giamblico), e agli stranieri.
Come eterìa politica, il suo forte attaccamento
alla disciplina e le sue stesse modalità di affiliazione la dovevano rendere
ostile all’instabilità democratica. D’altra parte il suo successo in termini di
reclutamento di un buon numero di cittadini delle poleis della Magna Grecia non poteva non modificarne l’orientamento politico.
L’aristocrazia della sapienza e della cultura trovava nondimeno un ampio
correttivo nel profondo sentimento umano della loro dottrina morale, tanto che
c’è anche chi ha visto nei Pitagorici una concezione politica illuminista ante
litteram.
Nello
ierós lógos la morale pitagorica può così riassumersi:
rispettare gli dèi e assoggettarsi alla loro volontà, restare fermamente al posto da loro
assegnatoci nella vita, prestare aiuto alla legalità contro i faziosi, serbare fedeltà agli amici e dirsi che tra amici tutto è comune (philótes
isótes), essere moderato e semplice nell’uso dei beni,
vergognarsi quando si è agito male, guardarsi dal giurare invano e fare onore al proprio giuramento, mantenere infine il segreto sugli
insegnamenti ricevuti per effetto dell’iniziazione. Si tratta, com’è evidente, di
norme dettate dalle esigenze di una concezione del mondo fortemente strutturata
e gerarchica.
“Che
cosa c’è di più saggio? il numero. Che cosa c’è di più bello? l’armonia”. In
questi due articoli del catechismo degli acusmatici sono enunciate le due idee
predominanti della scuola pitagorica. Quanto all’armonia, diceva il pitagorico
Filolao, la cosa più bella è “l’unità del molteplice composto e la concordanza
delle discordanze”.
Le leggi dell’uomo non sono altro
che un’immagine di quelle cosmiche. L’armonia dell’universo deve riflettersi e
agire nel mondo fisico e nella collettività, e l’intera vita degli uomini deve
essere regolata secondo gli stessi princìpi dell’armonia celeste. Non solo,
tutti gli individui devono tendere al raggiungimento dell’armonia interiore
esercitando il controllo sui propri istinti e risolvendo le pulsioni violente,
in un perfetto equilibrio tra elementi pari e dispari. Affinché ognuno possa
inserirsi armoniosamente nel flusso generale della vita, trovandovi il proprio
posto, è necessaria una presa di consapevolezza dei princìpi che regolano
l’universo, che può essere raggiunta soltanto con una corretta e faticosa
educazione. Per i Pitagorici era inconcepibile vivere senza il riferimento a
una autorità dominante. Proprio per questo essi insegnavano il rispetto verso
gli dei, lo Stato e i genitori, la pietà verso i defunti, la lealtà verso gli
amici (tra i quali “tutto e comune”), la giustizia, l’educazione, la
riservatezza, la continenza e la temperanza verso ognuno indistintamente e il
rispetto verso le altre specie viventi e condannavano ogni tipo di eccesso.
In un tale sistema, dove
l’universo è organizzato secondo dei princìpi di ordine e armonia, nessuna
parte del corpo sociale poteva essere trascurata, poiché tutto e tutti dovevano
partecipare alla realizzazione del perfetto kosmos.
La
concezione rigorosamente monista, come, d’altra parte, ogni concezione
monarchica e gerarchica tradizionale, è infatti fondata sulla concezione
monistica esoterica dell’universo. Alla monade pitagorica o al principio unico
platonico corrisponde politicamente l’unicità e l’unità dell’autorità somma di
governo, ossia la monarchia, nel senso etimologico del termine. Si tratta, per
inciso di una nozione iniziatica, attuata in Occidente da Cesare, tanto
esaltato da Dante e il cui nome designava anche in altre lingue (Kaiser, Zar)
l’imperatore, seguita e propugnata da tutte le associazioni e correnti
iniziatiche dell’Occidente, e che era alla base anche delle concezioni sociali
della sapienza orientale ed estremo orientale. Al concetto romano di imperium, si può infatti aggiungere, tra le più autorevoli manifestazioni, il
concetto musulmano del Califfato, quello indù del Chakravarti (Re del Mondo) e
quello imperiale cinese e giapponese.
Come sarà più chiaro ancora nel
pensiero di Platone, lo Stato giusto è quello che attua la maggior unità
possibile e, d’altra parte, questo risultato può essere ottenuto solo se il
governo è nelle mani dei veri filosofi. Tra questi i Pitagorici che Platone
definisce uomini che “partecipano ad un tempo, sia per natura sia per
educazione, alla filosofia e alla vita politica”.
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Platone con i suoi discepoli nei
giardini dell’Accademia. Emblema musivo, Museo Archeologico Nazionale di
Napoli, 110-90 a.C.
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La necessità di un’esigenza
etico-pedagogica avvicinò i Pitagorici al modello rappresentato dallo stato
spartano. Si deve ad A. Delatte l’approfondimento dei rapporti tra scuola pitagorica e
laconismo. L’“innegabile parentela” tra spartanismo e pitagorismo è stata
lucidamente riesaminata da F. Ollier ,
che ha tuttavia escluso prestiti tra l’uno e l’altro osservando correttamente
che Pitagora e i suoi discepoli si sono ispirati a un antico deposito comune
della sapienza ellenica, che nei Dori e in particolare nell’arcaica Lacedemone,
si era meglio preservata che altrove. Spartiati e Pitagorici hanno attinto alla
medesima fonte, senza che si possa dire che i primi sono stati iniziati dai
secondi. È dopo la distruzione delle scuole in Italia e il susseguente
trasferimento dei Pitagorici in Grecia che nasce l’ammirazione per Sparta e
sorgono profondi rapporti tra la scuola e la grande città dorica. È allora che
nasce la leggenda riferita da Timeo
che faceva di Pitagora un ammiratore e un allievo di Sparta.
La conquista dei popoli per opera
di Roma diverrà poi, più che per Alessandro e i Persiani, una missione,
conferita dal fato, per organizzare con la pace romana il mondo, o meglio l’ecumene
(le
terre note e abitate) alla più grande unità.
Infatti non siamo venuti al mondo solo per noi, ma la nostra nascita in parte
rivendica a sé la patria, in parte gli amici, cui certo non possono giovare
coloro che ritirandosi in solitudine si son separati dagli uomini, come membra
dall’unità del corpo.
L’armonia che governa la natura
viene presa, dunque, come modello che deve regolare anche il mondo dei rapporti
umani. Si tratta di un riflesso dello stato cosmico che l’uomo continua a
portare nelle profondità del suo essere. Famoso è il concetto pitagorico di philia che si può illustrare
con le parole di Giamblico: “Nel modo più perspicuo Pitagora insegnò l’amicizia
di tutti con tutti: amicizia degli dei con gli uomini, tramite la pietà
religiosa e un culto fondato sulla scienza; amicizia reciproca delle dottrine
e, in generale, amicizia dell’anima col corpo e della ragione con le parti
irrazionali di quella, tramite la filosofia e la contemplazione speculativa che
le è propria; amicizia degli uomini fra loro: tra i cittadini tramite una sana
osservanza delle leggi, tra i diveri gruppi etnici tramite la retta conoscenza
della natura umana; amicizia dell’uomo con la donna, i figli, i fratelli e i
parenti, tramite saldi vincoli di unione, e insomma amicizia di tutti con tutti
e financo con alcuni animali irrazionali, tramite il sentimento della giustizia
e della naturale vicinanza e solidarietà. Amicizia del corpo mortale con se
stesso, pacificazione e conciliazione delle contrarie potenze in esso latenti
tramite la temperanza secondo il modello del benessere che nell’universo si
produce dal concorso degli elementi cosmici”.
A
quale punto della scala graduata tra animale, uomo e divino fosse giunto il
Samio lo attesta questa frase di Aristotele: “c’è una specie di animale
ragionevole che è il dio, una seconda che è l’uomo, mentre Pitagora è l’esempio
della terza”.
Insomma, era uno di quegli uomini ispirati e demoniaci, che sono
intermediari tra l’ordine divino e l’ordine umano.
Ma
molto di quanto detto in precedenza, ovvero la necessità di ricondurre la
molteplicità all’unità, è mirabilmente sintetizzato in un simbolo. In breve la
chiave della dottrina pitagorica è la tetraktys,
la formula grafica generale dell’unità nella molteplicità: l’uno evolve il
molteplice e lo pervade. La tetratktys è
un modo per esprimere questa idea. Se geometricamente i primi quattro numeri
corrispondono a punto, linea, superficie e solido, cosmologicamente l’Uno è
Dio, il Due la materia, l’indefinito, la limitazione dell’imperfetto, il Tre la
combinazione della Monade e della Diade che partecipando alla natura di
entrambe esprime il mondo fenomenico, la Tetrade, o forma della perfezione,
esprime la vacuità del Tutto e la Decade, o somma del tutto, coinvolge l’intero
cosmo. L’universo è la combinazione del molteplice e tuttavia l’espressione di
un solo spirito: un caos per i sensi, un cosmo (cioè un ordine) per la ragione.
Allo
stesso modo che nell’ambito dimensionale la tetraktys rappresenta l’Uno (il vivente stesso,
come ci dice Aristotele), la lunghezza, la
larghezza e la profondità, sul piano elementale l’Uno corrisponde al fuoco, il
due all’aria, il tre all’acqua e il quattro alla terra, ossia il percorso che
va dall’elemento più rarefatto a quello più denso. In un altro approccio simbolico, quello dei numeri come idee stesse o princìpi: “l’intelletto [noùs] è
l’uno e la scienza [epistéme] il due (in un modo solo, infatti, essa va
verso una cosa sola), l’opinione [doxa] il numero della superficie, la
sensazione [aísthesis] quello del solido”.
Un’altra lista della tetraktys, oltre a quella di Teone di Smirne, si trova nella Teologia
dell’aritmetica di Giamblico.
La dottrina pitagorica ci pone di
fronte a dei problemi che hanno al tempo
stesso una portata storica, filosofica e massonica.
Tuttavia non occorre il Robert Langdon di Dan Brown
per decifrare formule esoteriche e massoniche come concordia discors , e pluribus unum o ordo
ab chao . Basta un Massone perspicace per scorgere in esse il
loro fondo pitagorico e l’ingiunzione a “radunare ciò che è sparso” e a
riportare all’uno il manifestato.
Occorre rifarsi e ripartire da uno studioso come
Arturo Reghini (1878-1946), di cui mai mi stanco di esortare a conoscerlo e
studiarlo.
Reghini — pythagoricus latomusque insignis (pitagorico e massone insigne) come reca inciso la sua
lapide nel cimitero di Budrio dov’è sepolto — con gli strumenti filologici del suo tempo, è riuscito
fondatamente a dimostrare l’origine della Massoneria negli antichi Misteri
pagani, nella schola italica di
Pitagora e nei collegia fabrorum
romani.
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Lapide del loculo di Arturo
Reghini nel cimitero di Budrio (BO). È la stessa lastra già posta sulla tomba a
terra a cura del Fratello Giulio Parise nel 1946.
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Da lungo tempo, direi anzi fin dalle sue origini nel
1859, il Rito Simbolico Italiano ha scorto che la ricerca della conoscenza ha
sempre coltivato non solo una caratteristica latomica, ma anche una
caratteristica architettonica, se non addirittura urbanistica e pertanto civica
e politica (data l’equazione tra polis, urbs e civitas). Plutarco ci tramanda, inoltre, il detto di Platone
secondo cui “dio geometrizza sempre”, che rispecchia perfettamente l’attività
costruttrice del Demiurgo, che cala i modelli intellegibili nella materia
sensibile mediante le figure geometriche e i numeri, e corrisponde bene
all’epigrafe che sarebbe stata scritta sul portone dell’Accademia: “Non entri
chi non è geometra”.
Personalmente mi diverto ancora a scandalizzare i
Fratelli della mia Loggia, quando si lavora in 3° grado, in genere per un
passaggio, lanciando loro un metaforico guanto di sfida. Li invito a
dimostrarmi, documenti e prove alla mano, che il 3° grado “azzurro” non sia un
aggiunta settententesca. Non ci sono infatti prove che la leggenda di Hiram,
così centrale nella Massoneria, sia antecedente al 1730.
In un certo qual modo sono ancora più drastico, oserei direi draconiano, del Fratello
Arturo Reghini, le cui affermazioni sono da tenere in ancor più maggior conto
nella considerazione che fu tra i fondatori della Rispettabile Loggia
“Lucifero” di Rito Simbolico, all’Oriente di Firenze e all’obbedienza del GOI e
fu nella sua vita alto dignitario, tra l’altro, e del Rito Scozzese - 33 di
Piazza del Gesù - e del Rito di Memphis, il quale affermava:
“I rituali di questi alti gradi
sono talora uno sviluppo della leggenda di Hiram, oppure si riattaccano ai
Rosacroce, all’ermetismo, ai Templari, allo
gnosticismo, ai catari..., vale a dire non hanno un vero e proprio carattere
massonico, e dal punto di vista della iniziazione massonica sono
assolutamente superflui. La massoneria sta tutta nei primi tre gradi,
riconosciuti da tutti i riti, e posti alla base degli alti gradi e delle camere
superiori dei varii riti. Il compagno libero muratore, una volta divenuto
maestro ha simbolicamente terminato la sua grande opera; e gli alti gradi potrebbero
avere una qualche funzione veramente massonica soltanto se contribuissero alla
corretta interpretazione della tradizione muratoria ed a una più intelligente
comprensione ed applicazione del rito ossia dell’arte regia.
Naturalmente questo non significa che si debbano
abolire gli alti gradi perché i fratelli insigniti degli alti gradi sono
liberi, e quelli di loro cui piace di riunirsi in riti e corpi per svolgere
lavori non in contrasto con quelli massonici debbono avere la libertà di farlo.
Però dal punto di vista strettamente massonico questa loro appartenenza ad
altri riti ed a camere superiori non li pone in alcun modo al di sopra di quei
maestri che non sentono il bisogno di altro lavoro che quello della universale
massoneria dei primi tre gradi. Del resto è manifesto che riti distinti, come
quello di Swedenborg, quelli scozzesi, quello della Stretta Osservanza, quello
di Memphis... appunto perché differenti non sono più universali, oppure lo sono
solo in quanto si basano sopra i primi tre gradi. Dimenticarlo o tentare di
snaturare il carattere universale, libero e tollerante della Massoneria, per
imporre ai fratelli delle Loggie particolari punti di vista ed obbiettivi,
sarebbe mettersi contro lo spirito della tradizione muratoria e contro la lettera
delle Costituzioni della Fratellanza.”
La Massoneria celebra nell’uomo-costruttore la sintesi
tra umano e divino. Il problema, per quel che riguarda un Ordine iniziatico, è
capire se esso rappresenti solo uno sforzo verso la Conoscenza, associato ad un
rigoroso abbandono dell’involucro egoico oppure se sia possibile sciogliere
l’inconcludente nodo dei binomi segreto iniziatico/vita profana,
speculativo/operativo, quello che nel pensiero classico tradizionale veniva
chiamata vita contemplativa/vita attiva. Ora, non è qui il caso di sottolineare
ancora una volta come la Scuola Italica di Pitagora mutò completamente il modo
di intendere l’Uomo e il suo ruolo nella cosmo. È possibile in altri termini
conciliare lo sforzo spirituale del proprio perfezionamento interiore con il
pensiero e la preoccupazione della giustizia? E perché? La teoria deve
necessariamente essere disgiunta dalla pratica?
Si tratta naturalmente di domande retoriche. Ma mi
piace qui concludere con Platone che nella sua celebre Lettera VII, dopo i suoi sfortunati viaggi in Sicilia dove
pensava di veder realizzato il suo modello politico aiutato solo dai
Pitagorici, dichiarava di aver veduto che
“i mali non avrebbero mai lasciato l’umanità se prima non fosse giunta
al potere una generazione di veri filosofi, o i reggitori di stato non si
fossero, per qualche intervento divino, votati alla filosofia.”
Moreno Neri