mercoledì 30 maggio 2012

IL MIO PROGETTO OVVERO LA MIA RICERCA


Mi è capitato di leggere, non molto tempo fa, che il Premio Nobel per la Fisica 2002 Raymond Davis (inventore della macchina che fu in grado di catturare le evanescenti particelle conosciute come neutrini solari, morto quattro anni dopo all’età di 91 anni) raccontava che la sua avventura era cominciata quando aveva 34 anni, nel 1948. Al giovane scienziato che aveva ottenuto un posto di ricercatore e che si presentò al direttore per chiedere di che cosa doveva occuparsi, fu data la straordinaria risposta: «vada in biblioteca, legga, e si scelga un progetto di ricerca qualunque, a suo piacimento».
Mi è venuto da pensare come la conoscenza, quella che apre spazi nuovi al sapere e spesso crea immense ricchezze (non necessariamente materiali) e ci cambia la vita, quasi sempre nasce da queste semplici istruzioni date a giovani (ancora non necessariamente in senso anagrafico) ben scelti.
Mi è anche venuto da pensare come, ad esempio, in ambito massonico, spesso ci si accontenti che il Compagno d’Arte, neofita, legga una Tavola il cui tema è stato scelto da chi dirige la Loggia, mentre invece forse sarebbe meglio se gli si dicesse: «entra nel Tempio, guardati intorno e scegliti una ricerca, a tuo piacimento». Così, nella maggior parte dei casi, dato il povero obolo al Caronte di turno, con l’esecuzione del compito in loggia assegnato preceduto da un ripasso di qualche ora (un evento estemporaneo che ricorda l’antico compito in classe letto davanti alla scolaresca: «Come ho passato le vacanze: osservazioni, riflessioni e proponimenti per il nuovo anno scolastico»), i più rinunciano a una vera ricerca.
Questo non vuol dire che a tutti gli altri succederà di diventare un Premio Nobel o un eccezionale e straordinario cercatore. Anzi è certo, quasi certissimo, che resteranno nel sottobosco dei tantissimi cercatori senza nome e senza ricompensa.
Un’altra cosa certissima è che si tratta di un lavoro lungo e faticoso, dove ciò che ci si svela è spesso gradualissimo e ci appare in modo confuso, attraverso prove, esperimenti, tentativi e idee, spesso equivoci e false piste, vicoli ciechi, intervalli, a volte bambinate, anomalie e correzioni e correzioni di correzioni, chiarimenti successivi e una certezza che non è mai completa, ma è un accumularsi lento di evidenza che pian piano ci permette di arrivare, alla fine di una lunga strada, a comprendere magari soltanto uno spicchio della verità. E quando si comprende, la luce scintilla davvero chiara.
La più bella descrizione di come funziona la conoscenza, e dei suoi tempi lunghi, è stata data da Platone, quando descrive l’attività del vero «cercatore di verità», nella sua Lettera VII (344 B-C):

Dopo un’applicazione totale e dopo molto tempo, mettendo 
in contatto, non senza fatica, queste realtà – ossia nomi, 
definizioni, osservazioni e altri dati sensibili – e confrontando
a fondo le une con le altre, e venendo messe a prova in 
confronti sereni e saggiate in discussioni fatte senza invidia 
e secondi fini da uomini che procedono per domande 
e risposte, alla fine con un improvviso lampo brilla la 
comprensione di qualunque problema e l’intuizione 
dell’intelletto, per chi compia il massimo sforzo 
possibile alla capacità umana. 

La verità, per l’uomo, nella sua vita contingente, sembra essere sempre ipotetica e provvisoria. Forse ciò che conta è solo la ricerca. Ogni ricerca ha una meta, ti invita come una stella polare, lontana e irraggiungibile, ti impegna in un viaggio che sembra avere un inizio e non sembra avere una fine.
Da qualche parte, nei nostri recessi dell’anima, persiste la nostalgia, il desiderio – che coincide con l’esilio – di ritornare alla «cara patria», all’origine primigenia del reale. L’eroe per antonomasia del nostos, il «ritorno», è Ulisse, a cui, più che l’approdo alla meta finale, Itaca (da cui, poi, si può anche ripartire per il «folle volo» di memoria dantesca), interessa il viaggio e l’attraversamento di qualche frontiera, il cui bordo è sempre rappresentato da un porto.
Credo anche che questo viaggio sia mosso dall’eros. Ed è forse per questo che amo in particolare una poesia di Costantino Kavafis che certamente conoscete, ma che vi voglio riproporre.
  
Konstantinos Kavafis
Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrìgoni e i Ciclòpi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d'incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclòpi e Lestrìgoni, no certo
né nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.
 
Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d'ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca
- raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

A tutte queste tappe, ai ritorni alle nostre patrie terrene, penso corrispondano le stazioni e la patria celeste. Queste tappe o la patria materiale che abbiamo scelto sono solo tappe e ritorno alle vicinanze dell’Origine, sono solo dimore instabili nella vicinanza dell’Essere.
Che sia la ricerca del Bello, del Bene, del Vero, del Giusto, o se volete dell’Oro, dell’Assoluto, del Sé, dell’immutabile permanenza del «sempre essente», è sempre qualcosa che rinvia a una realtà che pare inattingibile.
I molti nomi, inoltre, dell’oggetto della nostra ricerca rinviano ai suoi percorsi che sono molteplici. Da molti anni stimo la frase pronunciata dal pitagorico Quinto Aurelio Simmaco, uno degli ultimi pagani, che, nel 384, scrivendo al vescovo di Milano, il futuro Sant’Ambrogio, difendeva la pluralità delle vie della verità con queste parole:

Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contempliamo le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci racchiude. Che importa con quale dottrina ciascuno ricerca la verità? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un così sublime mistero.
(Simmaco, Relatio III)

Ogni nostra ricerca, ogni nostro progetto, sembra testimoniare non una presenza, ma una mancanza. Allude a un oltre, accennato da Platone, espresso da Plotino e dalla successiva tradizione platonica fino al Rinascimento, e poi da Goethe e da alcuni pensatori della modernità e del nostro tempo (penso, ovviamente, a James Hillman): all’anima che anela a tornare alla sua vera patria, al Padre, all’Uno.
Possiamo scegliere se comportarci come Narciso o come Ulisse: è quello che ci ha ancora spiegato Plotino. Nel primo caso inseguiremo un semplice riflesso, un’ombra, resteremo nelle tenebre della caverna platonica, immersi nell’illusione della materia, e correremo il rischio di annegarvi e di perdere persino la nostra vita.

Fuggiamo dunque verso la nostra cara patria, questo è il 
consiglio più vero che si può raccomandare. Ma qual è 
questa fuga? e come risalire? 
Come Ulisse che narra di essere sfuggito alla maga 
Circe e a Calipso, facendo comprendere, secondo la mia 
opinione, che non desiderava rimanere, benché vivesse 
in mezzo ai piaceri della vista e a bellezze sensibili di 
ogni specie. La nostra Patria è quella donde veniamo 
e lassù è il nostro Padre.
Che sono dunque questo viaggio e questa fuga? 
Non coi piedi bisogna farlo, perché i nostri piedi 
ci portano sempre di terra in terra; neppure c’è bisogno 
di preparare cocchi o navigli, ma è necessario 
staccarsi da queste cose e non guardar più, ma 
mutando la vista corporea con un’altra ridestare 
quella facoltà che ognuno possiede ma che pochi 
adoperano.
(Enneadi, I, 6, 8, 15-25, trad. di Giuseppe Faggin)

Come Ulisse è il narratore supremo di se stesso, il primo autobiografo della nostra Tradizione classica, vorrei che anche voi mi raccontaste il vostro viaggio avventuroso o almeno qualcuno dei mari e delle terre che avete incontrato nelle vostre peregrinazioni. Sia ognuno di voi, a suo piacimento e modo, persino come il joyciano Leopold Bloom, e considerate questo momento conviviale come il banchetto dei Feaci. Siate come Ulisse che narra la sua storia… poiché

Né spettacol più grato havvi, che quando
Tutta una gente si dissolve in gioia,
Quando alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti siedono in ordine, e le lanci
Colme di cibo son, di vino l'urne…
(Odissea IX, 5-10; trad. di Ippolito Pindemonte)

Il canto delle Sirene e Ulisse (illustrazione di Gianni Ciferri).    

 
 

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