25 giugno 2012
Kostantinos Kavafis
(“Termopili”, 1903. Traduzione di Paola Maria Minucci)
Un paese piccolo, undici milioni di abitanti e quasi nulle risorse industriali, marginale in tutti i giochi politici ed economici, ora anche gravato del ruolo di responsabile originario del disastro dell’euro, ultimo della classe, campione di evasione fiscale e di welfare fin troppo creativo, con molte pensioni ai finti ciechi e alle figlie nubili dei funzionari statali (norma ora abolita, per la cronaca), scialacquatore e truffaldino nelle credenziali e nei conti, rimasto per più di mezzo secolo in mano a oligarchie politico-familiari che si sono rivelate o inette o impotenti o poco desiderose di mettere ordine in quei conti. Eppure non c’è cosa che non si perdonerebbe alla Grecia, e se la partita europea contro la Germania (quella di calcio, vissuta come una battaglia campale) si fosse giocata su parametri diversi da quelli della contabilità delle reti, la si sarebbe potuta dare senz’altro vincente a tavolino ai biancoazzurri: “L’unica speranza, anch’essa assai improbabile, è che venerdì, almeno nello stadio di Danzica (ah la memoria storica!) la nazionale di calcio greca dimostri a quella tedesca che il Dio dello Spread non è onnipotente e può essere mandato nel pallone”, aveva scritto Marco d’Eramo sul manifesto del 19 giugno, interpretando l’auspicio maggioritario (anche al Foglio, con il suo Collettivo Tsipras), e commentando l’inflessibilità tedesca nel non voler addolcire nemmeno un po’ le condizioni dettate ad Atene. Nein, niente modifiche al memorandum, neanche dopo il voto che ha premiato “il partito degli obbedienti di Nea Democratia”.
Ma sono davvero così tante le cose da perdonare alla Grecia? L’attivista no global Naomi Klein, nel 2011, la faceva certo troppo facile quando dichiarava al quotidiano ateniese Eleftherotypia che “il Fondo monetario internazionale ha diagnosticato che siete malati, che il vostro stesso carattere è sintomo di malattia, e ora vi stanno costringendo ad avere sensi di colpa per come siete, in una tattica di patologia sociale che non si limita alla Grecia, ma si estende a tutti i paesi del sud del Mediterraneo”. Oggi tocca all’americana di origine greca Arianna Huffington, che sul New York Times del 12 maggio ha rievocato l’adolescenza ateniese – prima di diventare una delle giornaliste più influenti del mondo, con il suo sito da 325 milioni di dollari – e ha detto che mettere in punizione un intero paese per le prossime due o tre generazioni è sbagliato, oltre che profondamente ingiusto: “Mentre vedo la moderna tragedia greca dispiegarsi in Europa, torno ai diciotto anni che ho trascorso ad Atene e alla mia scuola nella Plaka (la parte vecchia della città)… Mentre crescevo, la mia famiglia era una specie di piccolo microcosmo dell’attuale economia greca. Eravamo fortemente indebitati, e i ripetuti tentativi di mio padre di diventare proprietario di un giornale passavano dal fallimento alla bancarotta. Alla fine, mia madre portò via me e mia sorella e lo lasciò. Abbiamo continuato a vivere ad Atene e a vedere mio padre, ma nella nostra casa c’era un’unica camera da letto”. La giornalista racconta di come la madre tagliò qualsiasi spesa, “ma non quella per la nostra educazione e per un cibo sano”. Solo due vecchi vestiti, anche l’ultimo paio di orecchini venduto, prestiti chiesti in giro a chiunque, “purché le sue figlie potessero realizzare i loro sogni di una buona educazione – io a Cambridge, mia sorella alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra”. E se ora, “i greci hanno agito irresponsabilmente prima del collasso economico – aggiunge – così come mio padre aveva agito irresponsabilmente nella vita privata e professionale, non è un buon motivo per punire i figli, per distruggere la loro parte di futuro in nome di un passato di cui non hanno nessuna responsabilità”. Mentre è chiaro a tutti che “l’implacabile percorso punitivo di austerità e di contrazione economica” sta negando un futuro ai giovani greci, ormai disoccupati al 54 per cento. Soprattutto, sta “distruggendo milioni di vite umane e paralizzando l’indomabile spirito greco”.
L’indomabile spirito greco: non è quello che ci piace pensare dei nostri cugini quasi fratelli (senz’altro fratelli, anzi, se si pensa a tutta la Magna Grecia)? Secondo il giornalista Dimitri Deliolanes, “la profondità di questo sentimento di simpatia per la Grecia, se non di vero amore, ha a che fare con l’idea di libertà. Dalla Grecia ci arriva questo, l’idea del libero cittadino non più suddito, un’idea che è cresciuta anche nel medioevo bizantino. Abbiamo fatto errori, c’è chi ha rubato e ha fatto casini, stanno dicendo i greci. Ma se ci togliete la libertà, se ci umiliate, allora ci ribelliamo, non ci stiamo. In fondo, è quello che è uscito anche dalle ultime elezioni. L’amore per la Grecia, per come lo interpreto io, ha a che fare con l’immagine del piccolo, del vessato che riesce a ribadire la propria libertà”.
Lo diceva con parole sue Jean-Pierre Vernant, il grande storico e antropologo che allo studio dei greci dell’antichità dedicò tutta la vita. Dopo aver conosciuto quelli contemporanei, però: “Perché i greci? Perché avevo percorso la Grecia a piedi, nel 1935, e l’avevo trovata magnifica. Nei nostri vagabondaggi attraverso la campagna, noi – quattro robusti giovanotti con lo zaino e i calzoni corti – eravamo accolti dai contadini, che ci ricevevano come se quegli stranieri che ospitavano rendessero loro il più grande onore. Quando arrivavamo nella piazza dei paesi, dove c’erano i caffè, la gente quasi litigava per decidere chi ci avrebbe alloggiato in casa… Ricevere l’ospite straniero appariva una fortuna piuttosto che un dovere, un favore divino da non lasciar cadere” (“Senza frontiere. Memoria, mito e politica”, Raffaello Cortina editore). Vernant lo dice con chiarezza: “Ho cercato di farmi greco interiormente, nei miei modi di pensare e nelle mie forme di sensibilità. Che lezioni ne ho tratto? Anzitutto, l’esigenza di una totale libertà di spirito: nessun divieto, nessun dogma, in nessun campo, deve ostacolare un’indagine critica, una ricerca priva di pregiudizi.
Libertà, “eleftherìa”: siamo sempre tutti lì, duemilacinquecento anni dopo, inchiodati al passo delle Termopili, con il manipolo di elleni che resistono all’immane esercito del Gran Re persiano. Metafora eterna del destino vinto dal coraggio, dall’onore e dall’amor di patria. Anche se ci sarà sempre un Efialte di turno, il traditore che vanificherà l’eroismo di Leonida e dei suoi, ne sarà comunque valsa la pena (se non altro perché siamo ancora qui a ricordarcelo, a ragionarci, a commuoverci). E anche senza tornare così indietro nel tempo, il greco si compiace e si ritrova sempre in quel famoso (e mai davvero pronunciato, ma certi miti fondativi non si curano dei dettagli) “ochi”: il “no” che il grigio e malatissimo dittatorucolo Metaxas oppose, alle tre del mattino del 28 ottobre del 1940, all’ultimatum di Mussolini (che Metaxas ammirava e avrebbe voluto imitare), il quale minacciava guerra se Atene non avesse accettato l’occupazione militare italiana di alcuni luoghi chiave del paese. (Tutti ricordiamo come sia poi finito il proposito del Duce di “spezzare le reni alla Grecia”). Nell’“ochi” di Metaxas c’è un’altra variazione sul tema molto greco e molto universale della trasfigurazione eroica dell’uomo insignificante, quando è necessario, del piccolo che diventa immenso, un po’ come il gol di Karagounis che manda a casa la potente Russia. L’altra faccia di questo eroe dell’imprevisto è l’anarchia profonda di un Karaghiozis (il personaggio che nel teatro delle ombre greco e turco impersona vizi e virtù del greco). E’ l’eterno Zorba, velleitario e ottimista, che balla su ogni disastro il suo sirtaki (ma fateci caso: il sirtòs si balla seri, concentrati, non allegri. E’ la danza dell’uscita dal labirinto dopo l’uccisione del Minotauro, è questione di vita o di morte, è la vita che, mentre danza sulla morte, sa che la lotta non finirà mai).
Fine della digressione. Tornando all’“ochi”, il “giorno del no” si ricorda ancora oggi in Grecia, così come il proverbio: “Al collo di un greco mai mettere un giogo”. Eppure sono molti i gioghi che da quelle parti hanno dovuto sopportare nei secoli, e che hanno accentuato lo scarto immane tra il peso ideale e culturale del paese nella storia del mondo e i suoi miseri destini politici.
La bizantinista Silvia Ronchey, a questo proposito, si ribella all’idea di una Grecia messa in punizione: “Ma per che cosa? Dopo Pericle e Alessandro Magno ci sono stati undici secoli di Bisanzio e molti secoli di impero ottomano, nei quali la Grecia è stata una provincia imperiale che ha avuto caratteristiche periferiche, decentrate, senza poter decidere nulla. Una provincia che ha accettato la politica del dominatore, fosse Roma o Costantinopoli. Michele Coniate aveva composto il suo bellissimo ‘Lamento sulle rovine di Atene’ già nel Dodicesimo secolo, con la città in totale decadenza proprio mentre Bisanzio era in piena espansione. Certo, sulle rovine di Sparta sorse Mistrà, con la sua grande scuola neoplatonica da cui avrà origine il Rinascimento. Ma la Grecia rimase a lungo in mano a una turcocrazia, più o meno illuminata. Ci sarà poi una guerra d’indipendenza voluta e comunque fatta dagli occidentali, fino a un re tedesco. E ora ci sono le banche americane”. Silvia Ronchey trova particolarmente ridicole “tutte le sciocchezze sulla pigrizia e l’inclinazione a scialacquare dei greci. Ma quando mai? Se c’è una popolazione che ha davvero vissuto nella tradizione contadina di sobrietà e di lavoro instancabile è quella greca. Vallo a dire a un contadino di Itaca, o all’emigrante che torna dopo quarant’anni dall’Australia. I debiti sono il diavolo, per un greco”. Semmai, “con la Grecia è la parte mediterranea dell’Europa che sta subendo un attacco, che non risparmierà né noi né gli spagnoli. Ricordo che, quando si parlava dell’ingresso della Turchia in Europa, uno studioso importante come il medievista Jacques Le Goff – pur appartenente alla stessa cultura francese che con Fernand Braudel aveva messo il Mediterraneo al centro della costruzione della modernità – diceva che in realtà i limiti meridionali dell’Europa non dovrebbero andare oltre la riviera ligure. Siamo tutti avvisati. Ma l’Europa nasce dalla Grecia, da Roma, dal mondo bizantino e dal diritto romano. Siamo tutti legati a quel teatro primario che è la cultura classica”.
Due studiose francesi, Jacqueline de Romilly e Monique Trédé, in “Piccole lezioni sul greco antico” (Il melangolo) hanno analizzato il miracolo di una lingua che “non ha mai cessato, fin dai tempi più antichi, di diffondersi per il mondo intero, senza essere imposta da una qualsiasi autorità politica”. Circostanza unica, è una lingua che si afferma “senza un autentico desiderio di conquista” e resiste sia alla dominazione romana sia a quella ottomana. Per l’accademica di Francia de Romilly e la studiosa di Storia antica Trédé, il merito è delle sue qualità di chiarezza, limpidezza, precisione, eleganza, concisione. La lingua greca ha dato parole “alla commedia, alla tragedia, alla storia, alla retorica, alla filosofia politica e morale, nel senso moderno del termine”. Parlano greco “gli eroi, i miti, le storie di cui si sono alimentate tutte le culture moderne d’Europa”. Parliamo greco ancora tutti noi, che abbiamo continuato a creare parole greche, come “psicoanalisi”. Per questo, chiedere perché si vuol bene alla Grecia è più o meno come chiedere perché si vuol bene a mamma e papà, secondo il filologo classico Maurizio Bettini: “La Grecia è dentro di noi. E’ stata l’anima della cultura romana, che a sua volta si è inventata una sua Grecia originale, una sua Grecia trascelta, fatta di autori esemplari, di grandi scrittori. E’ passata attraverso Dante che non aveva mai letto Omero ma che comunque attraverso i romani indica Omero come altissimo poeta. E non dimentichiamo che in certi periodi storici si è studiato più il greco che non le lingue nazionali”.
Un passato così glorioso, pesante come il mondo sulle spalle di Atlante, inclina alla comprensione nei confronti dell’“infelicità di essere greci”, per usare il titolo della raccolta di aforismi scritta dal pubblicitario Nikos Dimou nel 1975 e tornata d’attualità (in Italia l’ha ora pubblicata Castelvecchi): “Qualsiasi popolo che discendesse dagli antichi greci – scrive Dimou – sarebbe automaticamente infelice. A meno che non riuscisse a dimenticarli o a superarli. Quanto al tema dell’eredità, dividerei i greci in tre categorie: i consapevoli, i semi-inconsapevoli e gli inconsapevoli. I primi (pochi) lo sanno. Sentono il peso tremendo dell’eredità. Hanno capito il livello di sovrumana perfezione nella parola e nella forma dei loro antenati. E questo li schiaccia”. (C’è una sorta di inno nazionale ufficioso e parallelo, per i neo greci, che fa capire molte cose. E’ una canzone musicata da Mikis Theodorakis sulle parole del poeta e diplomatico Giorgos Seferis. “Rifiuto”, è il suo titolo, e parla di acqua bevuta nel meriggio assolato e rivelatasi amara, di sabbia su cui un nome scritto è stato spazzato via dal vento, di vita cominciata “ti pothos ke ti pathos”, con desiderio e con passione, ma che poi si è stati costretti a cambiare. Vogliamo cambiare la vita, insomma, ma poi, dobbiamo saperlo, è la vita che ci cambia. Vale per tutti, non solo per i greci).
Né schiacciati né troppo preoccupati apparivano invece gli elleni del 1960 ad Alberto Arbasino. Almeno quelli impegnati nello struscio a Omonia, la piazza ateniese “che è solo dei greci”: “E’ una folla così umile, allegra, pulita, gentile, sottomessa da secoli all’arbitrio del potere, che fa quasi tenerezza” (“Dall’Ellade a Bisanzio”, Adelphi). Come impressione non è troppo distante da quella del critico Emilio Cecchi, che nel suo “Viaggio in Grecia” (Muzzio) attribuiva ai greci non più che “casti sibaritismi”: “Questa gente scaltrissima negli affari e ingenua negli affetti, laboriosa e amantissima della famiglia, di poco vive, con nulla si diverte. Nella consumazione d’una bibita incantano un pomeriggio”. Un grande scrittore e pittore italiano come Alberto Savinio, che era nato il 25 agosto del 1891 ad Atene, le dedicò la più esplicativa delle dichiarazioni d’amore: “Allora come di lei mi risovviene, che si lasciava cogliere intera dai miei occhi di bambino, posata come un nido candidissimo di albatri nella nevosa conca della valle, ben fortunato mi reputo di essersi formata laggiù la mia ragione, fra i templi portatili, le colonne che girano assieme col girare del sole, le statue animate di serena magia, quando brillanti nella compagnia degli alberi, quando levate oscure di contro l’amorosissimo cielo” (“Alla città della mia infanzia dico”, in “Casa ‘La Vita’”, Adelphi). Savinio dice il vero, quando scrive che “gli dèi la visitavano sovente, di solito al mattino. Mercurio piombava dal cielo, scintillante come uno scarabeo nella sua corazza d’oro, posava un piede alato sulle case per riprendere lo slancio, rimbalzava in cielo”.
E allora: come non fare il tifo per i greci? “C’è un popolo che soffre. Un paese intero, la Grecia, di fronte al baratro economico e umanamente allo sbando”. Si apre così una lettera appello (primi firmatari l’italiano Gianni Pittella e la greca Anni Podimata, vicepresidenti del Parlamento europeo), che sarà presentata lunedì prossimo a Roma, quando i big europei si vedranno per fare il punto della situazione. L’appello chiede la revisione del memorandum europeo di intesa con la Grecia, perché “se Atene crolla anche l’Europa affonda” e perché “l’Europa senza la Grecia sarebbe come un bambino senza certificato di nascita” (letto e sottoscritto, tra gli altri, da Luigi Berlinguer, Franco Bassanini, Carlo Bernardini, Remo Bodei, Stefano Rodotà, Giorgio Salvini, Claudio Sardo).
Può sembrare retorico, chiedere a un altro importante filologo classico come Luciano Canfora perché ama la Grecia. Ma la sua risposta risulta tutt’altro che accademica. Degna, piuttosto, delle barricate a piazza Syntagma: “Perché la amo? Perché è il paese che più ha sofferto il predominio angloamericano dopo la Seconda guerra mondiale. Questo è alla radice del suo essere un paese sofferente, che tutti prendono a calci. Ed è il punto debole su cui anche frau Merkel si permette di dire ‘dovete votare l’euro ma comunque non vi diamo nemmeno un quattrino in più’. Neanche un Gauleiter (caposezione nazista, ndr) ai tempi di Hitler avrebbe fatto questo. Penso al fatto che i partigiani greci, dopo aver combattuto eroicamente i tedeschi, sono stati tenuti sotto tutela per anni dagli inglesi. Penso anche che gli americani hanno mandato loro i colonnelli, in tempi molto recenti”.
Nel giorno della partita di calcio che è diventata una battaglia campale, avremmo voluto planare su conclusioni meno tragiche, anche se non meno pensose. Magari con Emilio Cecchi, che così chiudeva il suo diario di viaggio nell’Ellade: “Cari, bravi Greci, addio. E’ chiusa la mia giornata nella vostra terra. Beati voi, anche per quello soltanto che di voi ci rimane. Voi non perdeste il vostro tempo. E una dura e meritata lezione al mondo sapeste darla. Mi par difficile che, ancora una volta, possiamo profittarne quanto sarebbe necessario. Grazie comunque, Greci carissimi. Grazie dell’intenzione. E addio”.
Siamo tutti greci
Un paese piccolo, scalcinato e in bancarotta, tiene in ostaggio ancora e per sempre il cuore d’Europa. Con molte buone ragioni
“Onore a quanti nella propria vita / si proposero la difesa di Termopili. / Mai allontanandosi dal dovere; / giusti e retti in tutte le azioni, / con dolore perfino e compassione; / generosi se ricchi e, se poveri, / anche nel poco generosi, / pronti all’aiuto per quanto possono; / sempre con parole di verità / ma senza odio per chi mente. // E ancora maggiore onore è loro dovuto / se prevedono (e molti lo prevedono) / che alla fine apparirà un Efialte / e i Medi infine passeranno”.Kostantinos Kavafis
(“Termopili”, 1903. Traduzione di Paola Maria Minucci)
Un paese piccolo, undici milioni di abitanti e quasi nulle risorse industriali, marginale in tutti i giochi politici ed economici, ora anche gravato del ruolo di responsabile originario del disastro dell’euro, ultimo della classe, campione di evasione fiscale e di welfare fin troppo creativo, con molte pensioni ai finti ciechi e alle figlie nubili dei funzionari statali (norma ora abolita, per la cronaca), scialacquatore e truffaldino nelle credenziali e nei conti, rimasto per più di mezzo secolo in mano a oligarchie politico-familiari che si sono rivelate o inette o impotenti o poco desiderose di mettere ordine in quei conti. Eppure non c’è cosa che non si perdonerebbe alla Grecia, e se la partita europea contro la Germania (quella di calcio, vissuta come una battaglia campale) si fosse giocata su parametri diversi da quelli della contabilità delle reti, la si sarebbe potuta dare senz’altro vincente a tavolino ai biancoazzurri: “L’unica speranza, anch’essa assai improbabile, è che venerdì, almeno nello stadio di Danzica (ah la memoria storica!) la nazionale di calcio greca dimostri a quella tedesca che il Dio dello Spread non è onnipotente e può essere mandato nel pallone”, aveva scritto Marco d’Eramo sul manifesto del 19 giugno, interpretando l’auspicio maggioritario (anche al Foglio, con il suo Collettivo Tsipras), e commentando l’inflessibilità tedesca nel non voler addolcire nemmeno un po’ le condizioni dettate ad Atene. Nein, niente modifiche al memorandum, neanche dopo il voto che ha premiato “il partito degli obbedienti di Nea Democratia”.
Ma sono davvero così tante le cose da perdonare alla Grecia? L’attivista no global Naomi Klein, nel 2011, la faceva certo troppo facile quando dichiarava al quotidiano ateniese Eleftherotypia che “il Fondo monetario internazionale ha diagnosticato che siete malati, che il vostro stesso carattere è sintomo di malattia, e ora vi stanno costringendo ad avere sensi di colpa per come siete, in una tattica di patologia sociale che non si limita alla Grecia, ma si estende a tutti i paesi del sud del Mediterraneo”. Oggi tocca all’americana di origine greca Arianna Huffington, che sul New York Times del 12 maggio ha rievocato l’adolescenza ateniese – prima di diventare una delle giornaliste più influenti del mondo, con il suo sito da 325 milioni di dollari – e ha detto che mettere in punizione un intero paese per le prossime due o tre generazioni è sbagliato, oltre che profondamente ingiusto: “Mentre vedo la moderna tragedia greca dispiegarsi in Europa, torno ai diciotto anni che ho trascorso ad Atene e alla mia scuola nella Plaka (la parte vecchia della città)… Mentre crescevo, la mia famiglia era una specie di piccolo microcosmo dell’attuale economia greca. Eravamo fortemente indebitati, e i ripetuti tentativi di mio padre di diventare proprietario di un giornale passavano dal fallimento alla bancarotta. Alla fine, mia madre portò via me e mia sorella e lo lasciò. Abbiamo continuato a vivere ad Atene e a vedere mio padre, ma nella nostra casa c’era un’unica camera da letto”. La giornalista racconta di come la madre tagliò qualsiasi spesa, “ma non quella per la nostra educazione e per un cibo sano”. Solo due vecchi vestiti, anche l’ultimo paio di orecchini venduto, prestiti chiesti in giro a chiunque, “purché le sue figlie potessero realizzare i loro sogni di una buona educazione – io a Cambridge, mia sorella alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra”. E se ora, “i greci hanno agito irresponsabilmente prima del collasso economico – aggiunge – così come mio padre aveva agito irresponsabilmente nella vita privata e professionale, non è un buon motivo per punire i figli, per distruggere la loro parte di futuro in nome di un passato di cui non hanno nessuna responsabilità”. Mentre è chiaro a tutti che “l’implacabile percorso punitivo di austerità e di contrazione economica” sta negando un futuro ai giovani greci, ormai disoccupati al 54 per cento. Soprattutto, sta “distruggendo milioni di vite umane e paralizzando l’indomabile spirito greco”.
L’indomabile spirito greco: non è quello che ci piace pensare dei nostri cugini quasi fratelli (senz’altro fratelli, anzi, se si pensa a tutta la Magna Grecia)? Secondo il giornalista Dimitri Deliolanes, “la profondità di questo sentimento di simpatia per la Grecia, se non di vero amore, ha a che fare con l’idea di libertà. Dalla Grecia ci arriva questo, l’idea del libero cittadino non più suddito, un’idea che è cresciuta anche nel medioevo bizantino. Abbiamo fatto errori, c’è chi ha rubato e ha fatto casini, stanno dicendo i greci. Ma se ci togliete la libertà, se ci umiliate, allora ci ribelliamo, non ci stiamo. In fondo, è quello che è uscito anche dalle ultime elezioni. L’amore per la Grecia, per come lo interpreto io, ha a che fare con l’immagine del piccolo, del vessato che riesce a ribadire la propria libertà”.
Lo diceva con parole sue Jean-Pierre Vernant, il grande storico e antropologo che allo studio dei greci dell’antichità dedicò tutta la vita. Dopo aver conosciuto quelli contemporanei, però: “Perché i greci? Perché avevo percorso la Grecia a piedi, nel 1935, e l’avevo trovata magnifica. Nei nostri vagabondaggi attraverso la campagna, noi – quattro robusti giovanotti con lo zaino e i calzoni corti – eravamo accolti dai contadini, che ci ricevevano come se quegli stranieri che ospitavano rendessero loro il più grande onore. Quando arrivavamo nella piazza dei paesi, dove c’erano i caffè, la gente quasi litigava per decidere chi ci avrebbe alloggiato in casa… Ricevere l’ospite straniero appariva una fortuna piuttosto che un dovere, un favore divino da non lasciar cadere” (“Senza frontiere. Memoria, mito e politica”, Raffaello Cortina editore). Vernant lo dice con chiarezza: “Ho cercato di farmi greco interiormente, nei miei modi di pensare e nelle mie forme di sensibilità. Che lezioni ne ho tratto? Anzitutto, l’esigenza di una totale libertà di spirito: nessun divieto, nessun dogma, in nessun campo, deve ostacolare un’indagine critica, una ricerca priva di pregiudizi.
Libertà, “eleftherìa”: siamo sempre tutti lì, duemilacinquecento anni dopo, inchiodati al passo delle Termopili, con il manipolo di elleni che resistono all’immane esercito del Gran Re persiano. Metafora eterna del destino vinto dal coraggio, dall’onore e dall’amor di patria. Anche se ci sarà sempre un Efialte di turno, il traditore che vanificherà l’eroismo di Leonida e dei suoi, ne sarà comunque valsa la pena (se non altro perché siamo ancora qui a ricordarcelo, a ragionarci, a commuoverci). E anche senza tornare così indietro nel tempo, il greco si compiace e si ritrova sempre in quel famoso (e mai davvero pronunciato, ma certi miti fondativi non si curano dei dettagli) “ochi”: il “no” che il grigio e malatissimo dittatorucolo Metaxas oppose, alle tre del mattino del 28 ottobre del 1940, all’ultimatum di Mussolini (che Metaxas ammirava e avrebbe voluto imitare), il quale minacciava guerra se Atene non avesse accettato l’occupazione militare italiana di alcuni luoghi chiave del paese. (Tutti ricordiamo come sia poi finito il proposito del Duce di “spezzare le reni alla Grecia”). Nell’“ochi” di Metaxas c’è un’altra variazione sul tema molto greco e molto universale della trasfigurazione eroica dell’uomo insignificante, quando è necessario, del piccolo che diventa immenso, un po’ come il gol di Karagounis che manda a casa la potente Russia. L’altra faccia di questo eroe dell’imprevisto è l’anarchia profonda di un Karaghiozis (il personaggio che nel teatro delle ombre greco e turco impersona vizi e virtù del greco). E’ l’eterno Zorba, velleitario e ottimista, che balla su ogni disastro il suo sirtaki (ma fateci caso: il sirtòs si balla seri, concentrati, non allegri. E’ la danza dell’uscita dal labirinto dopo l’uccisione del Minotauro, è questione di vita o di morte, è la vita che, mentre danza sulla morte, sa che la lotta non finirà mai).
Fine della digressione. Tornando all’“ochi”, il “giorno del no” si ricorda ancora oggi in Grecia, così come il proverbio: “Al collo di un greco mai mettere un giogo”. Eppure sono molti i gioghi che da quelle parti hanno dovuto sopportare nei secoli, e che hanno accentuato lo scarto immane tra il peso ideale e culturale del paese nella storia del mondo e i suoi miseri destini politici.
La bizantinista Silvia Ronchey, a questo proposito, si ribella all’idea di una Grecia messa in punizione: “Ma per che cosa? Dopo Pericle e Alessandro Magno ci sono stati undici secoli di Bisanzio e molti secoli di impero ottomano, nei quali la Grecia è stata una provincia imperiale che ha avuto caratteristiche periferiche, decentrate, senza poter decidere nulla. Una provincia che ha accettato la politica del dominatore, fosse Roma o Costantinopoli. Michele Coniate aveva composto il suo bellissimo ‘Lamento sulle rovine di Atene’ già nel Dodicesimo secolo, con la città in totale decadenza proprio mentre Bisanzio era in piena espansione. Certo, sulle rovine di Sparta sorse Mistrà, con la sua grande scuola neoplatonica da cui avrà origine il Rinascimento. Ma la Grecia rimase a lungo in mano a una turcocrazia, più o meno illuminata. Ci sarà poi una guerra d’indipendenza voluta e comunque fatta dagli occidentali, fino a un re tedesco. E ora ci sono le banche americane”. Silvia Ronchey trova particolarmente ridicole “tutte le sciocchezze sulla pigrizia e l’inclinazione a scialacquare dei greci. Ma quando mai? Se c’è una popolazione che ha davvero vissuto nella tradizione contadina di sobrietà e di lavoro instancabile è quella greca. Vallo a dire a un contadino di Itaca, o all’emigrante che torna dopo quarant’anni dall’Australia. I debiti sono il diavolo, per un greco”. Semmai, “con la Grecia è la parte mediterranea dell’Europa che sta subendo un attacco, che non risparmierà né noi né gli spagnoli. Ricordo che, quando si parlava dell’ingresso della Turchia in Europa, uno studioso importante come il medievista Jacques Le Goff – pur appartenente alla stessa cultura francese che con Fernand Braudel aveva messo il Mediterraneo al centro della costruzione della modernità – diceva che in realtà i limiti meridionali dell’Europa non dovrebbero andare oltre la riviera ligure. Siamo tutti avvisati. Ma l’Europa nasce dalla Grecia, da Roma, dal mondo bizantino e dal diritto romano. Siamo tutti legati a quel teatro primario che è la cultura classica”.
Due studiose francesi, Jacqueline de Romilly e Monique Trédé, in “Piccole lezioni sul greco antico” (Il melangolo) hanno analizzato il miracolo di una lingua che “non ha mai cessato, fin dai tempi più antichi, di diffondersi per il mondo intero, senza essere imposta da una qualsiasi autorità politica”. Circostanza unica, è una lingua che si afferma “senza un autentico desiderio di conquista” e resiste sia alla dominazione romana sia a quella ottomana. Per l’accademica di Francia de Romilly e la studiosa di Storia antica Trédé, il merito è delle sue qualità di chiarezza, limpidezza, precisione, eleganza, concisione. La lingua greca ha dato parole “alla commedia, alla tragedia, alla storia, alla retorica, alla filosofia politica e morale, nel senso moderno del termine”. Parlano greco “gli eroi, i miti, le storie di cui si sono alimentate tutte le culture moderne d’Europa”. Parliamo greco ancora tutti noi, che abbiamo continuato a creare parole greche, come “psicoanalisi”. Per questo, chiedere perché si vuol bene alla Grecia è più o meno come chiedere perché si vuol bene a mamma e papà, secondo il filologo classico Maurizio Bettini: “La Grecia è dentro di noi. E’ stata l’anima della cultura romana, che a sua volta si è inventata una sua Grecia originale, una sua Grecia trascelta, fatta di autori esemplari, di grandi scrittori. E’ passata attraverso Dante che non aveva mai letto Omero ma che comunque attraverso i romani indica Omero come altissimo poeta. E non dimentichiamo che in certi periodi storici si è studiato più il greco che non le lingue nazionali”.
Un passato così glorioso, pesante come il mondo sulle spalle di Atlante, inclina alla comprensione nei confronti dell’“infelicità di essere greci”, per usare il titolo della raccolta di aforismi scritta dal pubblicitario Nikos Dimou nel 1975 e tornata d’attualità (in Italia l’ha ora pubblicata Castelvecchi): “Qualsiasi popolo che discendesse dagli antichi greci – scrive Dimou – sarebbe automaticamente infelice. A meno che non riuscisse a dimenticarli o a superarli. Quanto al tema dell’eredità, dividerei i greci in tre categorie: i consapevoli, i semi-inconsapevoli e gli inconsapevoli. I primi (pochi) lo sanno. Sentono il peso tremendo dell’eredità. Hanno capito il livello di sovrumana perfezione nella parola e nella forma dei loro antenati. E questo li schiaccia”. (C’è una sorta di inno nazionale ufficioso e parallelo, per i neo greci, che fa capire molte cose. E’ una canzone musicata da Mikis Theodorakis sulle parole del poeta e diplomatico Giorgos Seferis. “Rifiuto”, è il suo titolo, e parla di acqua bevuta nel meriggio assolato e rivelatasi amara, di sabbia su cui un nome scritto è stato spazzato via dal vento, di vita cominciata “ti pothos ke ti pathos”, con desiderio e con passione, ma che poi si è stati costretti a cambiare. Vogliamo cambiare la vita, insomma, ma poi, dobbiamo saperlo, è la vita che ci cambia. Vale per tutti, non solo per i greci).
Né schiacciati né troppo preoccupati apparivano invece gli elleni del 1960 ad Alberto Arbasino. Almeno quelli impegnati nello struscio a Omonia, la piazza ateniese “che è solo dei greci”: “E’ una folla così umile, allegra, pulita, gentile, sottomessa da secoli all’arbitrio del potere, che fa quasi tenerezza” (“Dall’Ellade a Bisanzio”, Adelphi). Come impressione non è troppo distante da quella del critico Emilio Cecchi, che nel suo “Viaggio in Grecia” (Muzzio) attribuiva ai greci non più che “casti sibaritismi”: “Questa gente scaltrissima negli affari e ingenua negli affetti, laboriosa e amantissima della famiglia, di poco vive, con nulla si diverte. Nella consumazione d’una bibita incantano un pomeriggio”. Un grande scrittore e pittore italiano come Alberto Savinio, che era nato il 25 agosto del 1891 ad Atene, le dedicò la più esplicativa delle dichiarazioni d’amore: “Allora come di lei mi risovviene, che si lasciava cogliere intera dai miei occhi di bambino, posata come un nido candidissimo di albatri nella nevosa conca della valle, ben fortunato mi reputo di essersi formata laggiù la mia ragione, fra i templi portatili, le colonne che girano assieme col girare del sole, le statue animate di serena magia, quando brillanti nella compagnia degli alberi, quando levate oscure di contro l’amorosissimo cielo” (“Alla città della mia infanzia dico”, in “Casa ‘La Vita’”, Adelphi). Savinio dice il vero, quando scrive che “gli dèi la visitavano sovente, di solito al mattino. Mercurio piombava dal cielo, scintillante come uno scarabeo nella sua corazza d’oro, posava un piede alato sulle case per riprendere lo slancio, rimbalzava in cielo”.
E allora: come non fare il tifo per i greci? “C’è un popolo che soffre. Un paese intero, la Grecia, di fronte al baratro economico e umanamente allo sbando”. Si apre così una lettera appello (primi firmatari l’italiano Gianni Pittella e la greca Anni Podimata, vicepresidenti del Parlamento europeo), che sarà presentata lunedì prossimo a Roma, quando i big europei si vedranno per fare il punto della situazione. L’appello chiede la revisione del memorandum europeo di intesa con la Grecia, perché “se Atene crolla anche l’Europa affonda” e perché “l’Europa senza la Grecia sarebbe come un bambino senza certificato di nascita” (letto e sottoscritto, tra gli altri, da Luigi Berlinguer, Franco Bassanini, Carlo Bernardini, Remo Bodei, Stefano Rodotà, Giorgio Salvini, Claudio Sardo).
Può sembrare retorico, chiedere a un altro importante filologo classico come Luciano Canfora perché ama la Grecia. Ma la sua risposta risulta tutt’altro che accademica. Degna, piuttosto, delle barricate a piazza Syntagma: “Perché la amo? Perché è il paese che più ha sofferto il predominio angloamericano dopo la Seconda guerra mondiale. Questo è alla radice del suo essere un paese sofferente, che tutti prendono a calci. Ed è il punto debole su cui anche frau Merkel si permette di dire ‘dovete votare l’euro ma comunque non vi diamo nemmeno un quattrino in più’. Neanche un Gauleiter (caposezione nazista, ndr) ai tempi di Hitler avrebbe fatto questo. Penso al fatto che i partigiani greci, dopo aver combattuto eroicamente i tedeschi, sono stati tenuti sotto tutela per anni dagli inglesi. Penso anche che gli americani hanno mandato loro i colonnelli, in tempi molto recenti”.
Nel giorno della partita di calcio che è diventata una battaglia campale, avremmo voluto planare su conclusioni meno tragiche, anche se non meno pensose. Magari con Emilio Cecchi, che così chiudeva il suo diario di viaggio nell’Ellade: “Cari, bravi Greci, addio. E’ chiusa la mia giornata nella vostra terra. Beati voi, anche per quello soltanto che di voi ci rimane. Voi non perdeste il vostro tempo. E una dura e meritata lezione al mondo sapeste darla. Mi par difficile che, ancora una volta, possiamo profittarne quanto sarebbe necessario. Grazie comunque, Greci carissimi. Grazie dell’intenzione. E addio”.
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