Nella mia traduzione e
commentario al Macrobio / Commento al
Sogno di Scipione, che è stato definito, non da me – non amo autolodarmi –,
«uno dei più seri e documentati tentativi di presentazione dell’opera macrobiana
che siano apparsi in questi ultimi anni» (Francesco Paolo Ammirata, «Rec. a Macrobio, Il Commento al Sogno di
Scipione, a cura di Moreno Neri, saggio introduttivo di Ilaria Ramelli, Milano,
Bompiani, 2007, 916 pp. (Il pensiero occidentale), ISBN 978-88-452-5840-4.», in Mediaeval Sophia 5, gennaio-giugno 2009), si trova
un mio corposo saggio sulla
fortuna, nel corso dei secoli, della figura di Scipione nelle arti - pittura,
scultura, musica e così via, fino alla cosiddetta settima arte, il cinema (Moreno Neri, Scipione: sogni e magnanimità nelle arti, in
appendice a Macrobio / Commento al sogno
di Scipione; saggio introduttivo di Ilaria Ramelli; traduzione, bibliografia,
note e apparati di Moreno Neri, Bompiani Il pensiero
occidentale, Milano 2007, pp. 713-807) -,
corredato da una lunga
appendice iconografica
(Ibid., pp.
i-lxxix, fuori testo tra pp. 800 e 801),
dove si poteva osservare
come, a proposito della trasmissione di Scipione, nel periodo rinascimentale e
barocco, fossero tre le pietre miliari che più si ripetono nell’arte pittorica
e della tessitura durante questi periodi: la gloria, rappresentata nel trionfo
di Scipione sul campo di battaglia; la moderazione, rappresentata con l’episodio
della continenza di Scipione; e il sogno, raccontato da Cicerone nella sua Repubblica.
Devo spiegare sinteticamente le ragioni del mio interesse per
Scipione. Ciò che mi ha condotto a Scipione, e quindi a Macrobio, è il mio
essere riminese; di una città, perciò, che ospita quel monumento che è stato
definito l’emblema stesso del Rinascimento, il Tempio Malatestiano (cfr. Cesare Brandi, Il Tempio Malatestiano (1956), in Tra
Medioevo e Rinascimento: scritti sull’arte da Giotto a Jacopo della Quercia; a
cura di Maria Andaloro, Jaca Book, Milano 2006, pp. 171-198: 171).
Al suo interno, nella prima
Cappella a sinistra, sul lato destro della parte anteriore dell’Arca degli Antenati e dei Discendenti di
Sigismondo, ritroviamo un bassorilievo in cui s’illustra il Trionfo del
generale romano. Su questo rilievo marmoreo e sui suoi nascosti significati
iconologici qui ci dilunghiamo.
Il Tempio Malatestiano di Rimini contiene
nella Cappella della Madonna dell’Acqua un sarcofago ultimato nel 1454 e
riempito con le ossa degli antenati e discendenti di Sigismondo Pandolfo
Malatesta (1417-1468). Chiamato perciò l’Arca degli Antenati e Discendenti
di Sigismondo si trova in una nicchia interna, coperta da un sontuoso
drappeggio gotico in forma di baldacchino, sulla parete di sinistra ed è
adornata da due bassorilievi che proclamano la fama e il trionfo di Sigismondo
e della sua famiglia e che è l’espressione più diretta dell’iconografia
dinastica del principe riminese. Le due sculture vengono ora interpretate come
due Trionfi, quello di Minerva sul
lato sinistro e quello di Scipione nel lato destro, mentre più anticamente il
bassorilievo di sinistra veniva interpretato come il Tempio di Minerva e quello di destra semplicemente come un Trionfo. Ad ogni angolo vi sono i
monogrammi $
scolpiti sugli stemmi malatestiani. Sigismondo appare in entrambi i
bassorilievi, pur essendo travestito come Sigismondo/Scipione. L’iscrizione
centrale nello scompartimento al centro tra i due bassorilievi, dedicata alla
famiglia dei Malatesta, ci informa che in essi si illustrano i meriti di
probità e di forza di Sigismondo. Infatti, l’iscrizione incisa sulla lastra che
separa i due pannelli dichiara:
sigismvndvs
pandvlfvs malatesta pandvlfi f(ilivs)
ingentibvs
meritis probitatis fortitvdinis(-)qve
illvstri generi
svo maioribvs posteris(-)qve
I due bassorilievi, quindi, simboleggiano le
benemerenze della famiglia Malatesta nelle imprese culturali (Il trionfo di
Minerva) e la gloria ottenuta con le vittorie militari (Il trionfo di
Scipione).
Nel pannello che fa da compagno al Tempio o Trionfo di Minerva, il Trionfo di Scipione, vi è, per
alcuni, l’immagine di Scipione il Giovane coi suoi occhi chiusi, come fosse in
un sogno, classicamente inghirlandato e vestito di corazza e toga; per altri si
tratta invece di Scipione il Vecchio. È portato seduto sopra un trono a due
teste leonine, mentre regge un ramo di palma nella sinistra e un bastone nella
destra, su un alto carro trionfale guidato da quattro cavalli — un onore
concesso ai generali insigni nell’antica Roma. Il carro è riccamente lavorato,
con le immancabili rose malatestiane nella parte superiore. Dei putti reggono
degli scudi che portano l’altrettanto onnipresente sigla e dei festoni che
fanno capo in mezzo ad una ghirlanda con al centro una testa. Il carro passa
attraverso un arco trionfale con una sola apertura ispirato all’Arco di Tito e,
insieme, al frontone del Tempio, una illustrazione del non più esistente antico
arco trionfale di Scipione all’inizio del clivo Capitolino, che gli fu
accordato nel 190 a.e.v. dopo l’annientamento di Annibale (Livio, Ab urbe condita XXXVII, 3). Nello
sfondo, sulla cima, un paesaggio di obelischi, colonne a spirale (come la
Traiana e l’Antonina) e un castello che rappresenta la Mole di Adriano,
arieggiante perciò una veduta dell’Urbe. Le solite iniziali di Sigismondo e le
rose sullla volta riccamente decorata dell’arco suggeriscono che il
protagonista sia da identificarsi in Sigismondo. L’immagine di
Sigismondo/Scipione è posta nella zona intermedia del carro e la
personificazione della Fama, una figura nuda che suona la tromba nella parte
più in alto a sinistra del bassorilievo, annuncia le sue lodi. La diagonale
della sua tromba lascia l’osservatore senza dubbi sul fatto che Sigismondo sia
il destinatario delle sue lodi. Il suo trono leonino proclama l’antichità della
sua schiatta e la legittimità del suo dominio. Nell’iconografia del Tempio
Malatestiano, è Sigismondo che afferma di discendere da Scipione il Vecchio. Il
carro è trainato da quattro vivaci destrieri, guidati da staffieri agitanti una
frusta. Ai lati una serie di figure, forse prigionieri.
Il trionfo è un passaggio, simboleggiato
dall’attraversamento dell’arco, da uno stato umano a uno stato di ascesa, che
spetta al vincitore di una battaglia. I cavalli bianchi denotano spiritualità e
purezza solare, sono gli stessi che trasportano il carro del sole lungo il
cielo. Il trono si trova su una piattaforma sopraelevata in quanto centro del
mondo tra cielo e terra e quindi simboleggia l’autorità insieme divina e
temporale del vincitore. Il trono è sorretto da due creature con il volto del
leone: simboli solari, la coppia di leoni padroneggia la doppia forza,
materiale e spirituale, e l’assoggettamento delle forze cosmiche. Ancora solare
è la palma, emblema di Apollo a Delfi: rappresenta esultanza, fama (perché
cresce sempre eretta), benedizione, trionfo, vittoria; osservava Aristotele che
il suo legno si erge sotto il peso in luogo di piegarsi, essendo all’esterno la
parte vecchia e nell’interno la giovane, perciò è simbolo di vittoria. Il
pitagorico Plutarco dice … che non perde
mai il suo fogliame, è continuamente adorna del medesimo verde. Propizio per
gli uomini è considerato questo suo potere e adatto a rappresentare la vittoria
(Quaestiones convivales 8, 723A-724F). Quanto al bastone o scettro,
anch’esso simbolo solare e assiale, attributo del potere e della dignità,
dell’autorità di colui che ha a lungo viaggiato e saputo vincere gli ostacoli
incontrati nel suo percorso. E infine la Fama, qui raffigurata con una sola
tromba, quella che propaga la verità; la tromba della menzogna è assente. E
ancora la sferza, altro simbolo solare sacro ad Osiride e Apollo, è l’autorità
che ripristina la potenza virile e la fecondità. Anche questo rilievo, come tanti altri presenti nel
Tempio presenta un accostamento interessante con la carta del Carro di
Bonifacio Bembo, VII Arcano maggiore dei tradizionali Tarocchi rinascimentali. Il
significato esoterico dei due bassorilievi connessi è estremamente profondo,
pur nella sua immediata semplicità di apoteosi o meglio di «indiamento» di
Sigismondo, di cui troviamo un riflesso negli ultimi versi del Liber Isottaeus di Basinio: regis Ariminei celeberrima fama tropheis /
vivet et invicti gloria summa ducis (del
re di Rimini la celeberrima fama nei trofei / vivrà e la somma gloria
dell’invitto condottiero).
Dunque, lo stesso
Sigismondo Pandolfo Malatesta, artefice del Tempio, pretendeva di discendere da
Scipione l’Africano.
L’associazione di Sigismondo con i due
Scipioni fu certamente ispirata da più di un testo classico. Le fonti più
probabili per tale iconografia sono, innanzitutto, i Saturnalia e il Commento
al “Somnium Scipionis” di Cicerone di Macrobio, oltre all’Africa di Petrarca.
Il clima archeologizzante allora in voga, ma al tempo
stesso la mancanza di fonti autorevoli sulla mitografia e l’astrologia, rendeva
l’opera di Macrobio una delle fonti dirette d’ispirazione delle figure
scultoree del Tempio Malatestiano.
L’Africa
di Petrarca aveva codificato il crescente conflitto tra Scipione
il Vecchio e il cartaginese Annibale. Il desiderio di Sigismondo di trionfare
su Federico da Montefeltro riflette l’ultima sconfitta di Annibale da parte del
suo antenato Scipione. Nel testo di Petrarca, infatti, vi è una quantità di
passi che sono in risonanza con i contendenti signori quattrocenteschi di Rimini
e di Urbino, fra cui le invettive che si lanciarono reciprocamente. Annibale,
ad esempio, ebbe uno stretto rapporto con suo fratello come Federico lo aveva
con Ottaviano degli Ubaldini. Scipione, a sua volta, fu
vicino a suo zio e a suo padre come Sigismondo lo era a Pandolfo e a Carlo
Malatesta, rispettivamente genitore e zio. Annibale, come Federico, aveva perso
un occhio: Annibale per un’infezione e Federico in un torneo. Scipione (Africa II, 43) chiama Annibale un
“brigante monocolo” e lo paragona a Polifemo che spunta dalla sua caverna eolia
(Africa VII, 1115).
Il mito delle origini celesti di Scipione può
essere collegato al culto solare di Rimini. Petrarca paragona Scipione al Sole
e Giove si meraviglia di fronte alla splendore del generale romano ed anche
Apollo si stupisce di avere un rivale (Africa VII, 1262 ss.). In virtù della sua associazione con gli
Scipioni, Sigismondo proclama le sue origini divine, il suo rapporto con il
sole e la sua ambizione di distruggere Federico come Scipione distrusse
Annibale.
Per quel serio gioco di coincidenze e rimandi
che tanto attraeva la nuova cultura rinascimentale, va accennato che Scipione
l’Africano e la sua cerchia erano un’organizzazione pitagorica, così come la cerchia di Sigismondo era un’istituzione
esoterica.
A Scipione l’Africano i Malatesta, come ci
racconta Gaspare Broglio, segretario e compagno d’armi di Sigismondo, facevano
risalire la loro progenie. Durante il Rinascimento, fu, dunque, il munifico signore di Rimini che per primo
s’impadronì di Scipione come antenato — ben prima dei veneziani Cornaro e di
Scipione Borghese. Quale autorità più plausibile potevano consultare Sigismondo
Malatesta e i suoi consiglieri, se non il Somnium
Scipionis? Non solo esso era il trattato classico sull’immortalità e
apoteosi di un principe, ma Scipione l’Africano era il vantato antenato di
Sigismondo. Ricorda Broglio nella sua Cronaca
che «quelli illustrissimi signori [Malatesti]» erano «disciesi della
illustrissima casa del magnio et illustrissimo imperadore zoè capitano dello
exercito romano nominato al suo tempo Scipione Africano» ed egli dichiara che
un argomento che distolse Sigismondo dall’assassinare il pontefice Paolo II,
che gli voleva togliere l’amata città di Rimini, fu questo: «se tu comporti tal
vilipendio poteratti tu mai più appellare della Ill.ma e degna Casa delli
Scipioni boni romani, li quali mai mancarono di loro honore?» (Il testo della Cronaca Universale di Gaspare Broglio si
legge in un manoscritto autografo del XV sec. conservato nella Biblioteca
Gambalunga di Rimini [ms 77 = 69, D. III.48] e si trova trascritto in Luigi
Tonini, Rimini nella Signoria de’
Malatesti – parte prima, vol. II, Tipografia Albertini e C., Rimini 1880).
Sull’argomento
scipionico cfr. Maria Grazia Pernis & Laurie Schneider Adams, L’Aquila e l’Elefante: Federico da
Montefeltro e Sigismondo Malatesta, trad. di Moreno Neri, Raffaelli
Editore, Rimini 2005, pp. 131, 141-142 [Maria
Grazia Pernis & Laurie Schneider Adams / Federico da Montefeltro and
Sigismondo Malatesta. The Eagle and the Elephant, Peter Lang, New York etc.
2003, pp. 90, 98-99].
Un vanto genealogico – quello
di Scipione, modello da imitare ed exemplum
di condotta di tutti gli uomini del Rinascimento, fatto «col
sorriso intimo» – come crede Montherlant – «di chi non si lascia ingannare dai
propri sogni ma getta nel fuoco tutto ciò che gli si offre per ravvivare la
fiamma» (Henry de Montherlant, Il Malatesta di Montherlant – La rappresentazione a Rimini, in Il Resto del Carlino, lunedì 28 luglio
1969, p. 3. L’articolo del Carlino è
ripubblicato nella versione italiana di Montherlant / L’infini est du côté de
Malatesta (Gallimard nrf, Paris 1951): Henry de Montherlant / L’infinito è dalla
parte di Malatesta; introduzione di Giuseppe Scaraffia; con un’appendice di
documenti e immagini a cura di Moreno Neri, Raffaelli Editore, Rimini 2004,
pp. 141-143: cit. p. 142. Il Malatesta
di Montherlant, scritto tra il marzo 1943 e il febbraio 1944, fu pubblicato
solo nel 1948 ed ebbe la sua prima a Parigi nel Théâtre Marigny il 19 dicembre
1950, con la regia di Jean-Louis Barrault che interpretava anche Sigismondo
Pandolfo Malatesta. Per le considerazioni del drammaturgo francese su Scipione,
vedi nella trad. it. cit. pp. 52, 56, 61 e 78).
Particolare
della Cappella degli Antenati, Tempio
Malatestiano, Rimini.
|
Particolare dell'Arca degli Antenati, Tempio Malatestiano, Rimini. |
Da parte mia, consideravo le due curiose coincidenze
che Sigismondo moriva a cinquantun anni, la stessa età in cui era morto
Scipione, e che il suo peggior nemico di tutta la vita, Federico da
Montefeltro, signore di Urbino, fu monocolo come Annibale. Scoprì poi e
pubblicai un paio di conferenze (una con mia traduzione) di Charles Mitchell
del Warburg Institute
(vedi Charles Mitchell, Le raffigurazioni del Tempio Malatestiano, (a cura di Moreno Neri),
Raffaelli Editore, Rimini 2000; il libro contiene due saggi: il primo è la
traduzione della versione in inglese pubblicata con il titolo The Imagery of Tempio Malatestiano, in Studi Romagnoli II, Faenza 1951, pp.
77-90, mentre il secondo è la ristampa di Il
Tempio Malatestiano, in Studi
Malatestiani, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Studi Storici,
Fasc. 110-111, Roma 1978, pp. 71-103, testo di una conferenza, tenutasi nella
Sala dell’Arengo a Rimini, il 6 dicembre 1968). In esse si dimostrava che tra le fonti letterarie
dei lapicidi del Tempio vi furono Il
Commento al Sogno di Scipione del neoplatonico del V secolo Macrobio e l’altro
suo testo, giuntoci incompleto, i Saturnalia.
In breve Mitchell sosteneva che il monumento riminese nascondesse un significato
neoplatonico e individuava l’insistita ricorrenza di un simbolismo solare; l’intento
della sua edificazione, per altro incompiuta, era una celebrazione di
Sigismondo quale discendente di Scipione e l’illustrazione di una sua apoteosi
come dio-solare, al pari di Scipione, cui doveva essere destinato un cielo
laico, un cielo per grandi uomini e non per santi. Infatti, nel suo Sogno di
Scipione, Cicerone immagina le anime meritevoli che salgono alle stelle.
Arca degli Antenati e dei Discendenti (1454), Cappella degli Antenati, Tempio Malatestiano, Rimini (Foto Alinari). |
Tempio di Minerva - Particolare dell’Arca degli Antenati e dei Discendenti (Foto Brogi).
|
Trionfo di Scipione - Particolare dell’Arca degli Antenati e dei Discendenti (Foto Brogi). |
Il Carro, VII Arcano maggiore dei tradizionali Tarocchi rinascimentali di Bonifacio Bembo, detti "Tarocchi Visconti-Sforza". |
Nessun commento:
Posta un commento