Piero della Francesca, San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta, 1450-1451
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L’affresco di Piero della Francesca che vediamo si trova nel Tempio Malatestiano di Rimini, in origine Chiesa di S. Francesco, ricostruita all’esterno da Leon Battista Alberti e splendidamente decorata di bassorilievi da Agostino di Duccio e da altri lavoranti della pietra.
Il committente Sigismondo Pandolfo Malatesta cancellò persino il nome di S. Francesco titolare della vecchia chiesa, volendo fosse chiamato Templum e verrà dedicato umanisticamente, e certo spiacendo alla Chiesa, con una iscrizione greca al Dio immortale ed alla città. Si noti al Dio e non a Dio; c’è una certa differenza. Un Tempio, emblema del Rinascimento, che volta a volta è stato definito Tempio esotico, esoterico, eroico, erotico, eretico.
L’opera era collocata nella cappella delle Reliquie sul lato destro della navata del Tempio Malatestiano di Rimini. Ecco una foto della sua porta di accesso.
Veduta verso l’abside con porta della Cella delle Reliquie e Cappella di Isotta e dei Pianeti. |
Malamente restaurato nel 1820, nel 1944, l’affresco, per timore di bombardamenti, fu trasferito su tela mediante strappo e portato nella Galleria Nazionale di Bologna, dove rimase per qualche tempo, fino al suo ritorno a Rimini nel 1950, dopo essere stato liberato dalle vecchie ridipinture. Poco più di dieci anni fa, suscitando le ire dell’allora sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, fu spostato verso l’abside della chiesa nella cappella settecentesca attigua a quella dei Pianeti. Sgarbi – che potrà avere tutti i difetti umani e politici che volete ma che ama e conosce i beni culturali e artistici –, nell’agosto del 2001, spiegò che l’affresco era stato dipinto davanti a una precisa fonte di luce e che da quella era illuminato al meglio come aveva previsto Piero. L’attuale collocazione su un muro, in controluce, dà purtroppo l’idea di una gigantografia o di un arazzo. La Curia difese la scelta, culturalmente irresponsabile – contraria alle ragioni dell’arte e della storia – con questa semplice giustificazione: non c’era il personale per aprire la cappellina.
È questo, quello della cappella, un ambiente difficile a causa dello spazio limitato, che ha condizionato Piero al punto che la parte superiore dell’affresco si trovava sulla volta a botte, mentre il margine inferiore era obbligato dall’architrave della porta. Ma le nostre obiezioni potrebbero essere legate alla sensibilità estetica contemporanea. Piero avrebbe potuto trovare invece interessante la sfida a costruire una prospettiva perfetta malgrado la parete parzialmente curva. Inoltre l’intimità dell’incontro fra il santo e il suo devoto, l’allusione a una profondità e a un’ampiezza inesistenti, come meglio vedremo, sono potenziati dall’esiguità dello spazio e dal carattere segreto della cella, destinata ad accogliere il tesoro delle reliquie.
Quanto alla committenza, al tempo del padre di Sigismondo San Sepolcro era sotto Rimini e dunque Piero potrebbe essere stato chiamato da Jacopo di Alberico di Anastagi, appartenente a una delle famiglie più in vista del Borgo diventato consigliere di Sigismondo, oppure da Lionello d’Este, alla cui corte Piero avrebbe soggiornato dal 1449 al 1450.
Sulla cornice in basso le iscrizioni e, sempre in basso a destra la datazione. Per la precisione le iscrizioni sono: nella cornice inferiore sotto l’immagine di San Sigismondo SANCTVS SlGISMVNDVS; sotto l’immagine di Sigismondo PANDVLFVS MALATESTA PAN. F.; all’estremità destra, su due righe PETRI DE BVRGO OPVS MCCCCLI. La forma epigrafica “PAN(dulfi) F(ilius)” è tipica della romanità. I numeri “LI” (51) della data non si leggono più, ma l’iscrizione fu registrata integra sin dal 1794 in un’incisione di Francesco Rosaspina.
Torniamo all’affresco, che, come potete vedere, è molto rovinato. Questo perché Piero ha completato la pittura ad affresco con estesissimi interventi a secco, che gli hanno consentito l’uso di colori che altrimenti la calce presente nell’intonaco fresco avrebbe bruciato. Questa tecnica mista ha comportato la caduta dei colori più brillanti e la conservazione soltanto di quelle parti che erano state eseguite ad affresco, in particolare i volti, i festoni, i cani. Le perdite più gravi riguardano gli abiti dei due personaggi, il tappeto, gli specchi marmorei sulla parete di fondo (su cui i critici d’arte discutono: per alcuni si tratterebbe di porfido verde e rosso, per altri di arazzi a fogliame verde e fiori rossi). Anche nel ciclo di Arezzo Piero utilizzò questa tecnica mista. La veduta del castello fu eseguita quasi interamente a fresco, tranne la torre rossa, che Piero aggiunse in seguito e che è quasi del tutto sparita.
La scena, un’immagine dal fondo tripartito, rappresenta, entro una ricca cornice marmorea, Sigismondo Malatesta, in ginocchio, le mani giunte in preghiera. Le colonne scanalate con capitelli anticheggianti, infatti, articolano il piano pittorico in tre aperture il cui sfondo è il liscio e scuro muro di un immaginario portico o sala. Questa tripartizione ci permette di dare ordine alla nostra ecfrasis, alla nostra descrizione.
Vediamo la postura del santo, un nobile vecchio dalla candida barba bipartita, seduto su una sorta di seggio che assomiglia a un trono ma che potrebbe essere anche un faldistorio (una sedia pieghevole, provvista di braccioli ma senza schienale, utilizzata nella liturgia cattolica e di solito coperta di stoffa come quella che vediamo). San Sigismondo, primo re barbaro dei Burgundi convertito al cattolicesimo, fu autore di un orrendo delitto ma pentito e poi martirizzato. La sua figura è vista di tre-quarti ed è molto informale; la posizione della gamba destra è sicuramente un espediente per ottenere l’effetto di spazio in profondità della pedana. Inoltre, è posto nella composizione in modo tale che insieme al trono formi, per così dire, la base di una delle due colonne. La critica evidenzia il fatto che san Sigismondo, che tiene uno scettro e un globo imperiale viene raffigurato con le sembianze dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, incoronato da papa Eugenio IV il 31 maggio 1433 e passato poi da Rimini, il 3 settembre dello stesso anno, dove nominò cavaliere il quindicenne Gismondo insieme al fratello Domenico. Da allora, dopo questa investitura, anzi una vera e propria cerimonia d’iniziazione, a rafforzare la loro nuova nascita fu dato loro un nuovo nome: Gismondo, con l’aggiunta di una sillaba, divenne Sigismondo, ribattezzato così in onore del padrino imperiale, e Domenico, signore di Cesena, fu chiamato, significativamente, Novello. Da notare che il globo che tiene il santo imperatore non è crucigero, cioè sormontato da una croce. Ma chiunque visiti il Tempio di Rimini noterà l'avversione di Sigismondo per le croci, sostituite in genere dalla sigla malatestiana. Nondimeno, la qualificazione superumana del sovrano è appena accennata dal disco aurato del nimbo che è un esempio dell’impeccabile prospettiva di Piero. Il santo re siede dunque su di un trono coperto di un manto posto sopra una pedana elevata di due gradini e ricoperta di un tappeto caucasico. San Sigismondo, il re borgognone vissuto nel VI secolo, indossa un cappello che raramente s’incontra in Italia, probabilmente destinato a indicare che è il Re di Borgogna in persona. Un tempo esternamente rosso, il cappello deve essere stato effettivamente emblematico dell’imperatore Sigismondo, così come a questi corrisponde il volto dalla candida barba fiorita, secondo un’iconografia ben documentata. L’imperatore Sigismondo era morto nel 1437; nel 1433 aveva concesso al Malatesta il titolo di cavaliere. Piero non aveva sicuramente potuto vederlo, però, amava documentarsi, come avrebbe fatto nel ciclo di Arezzo, dove avrebbe usato l’immagine del Paleologo per caratterizzare l’imperatore d’Oriente. La popolarità dell’imperatore Sigismondo, che era stato a lungo a Siena, in attesa dell’incoronazione, e aveva indetto il concilio che aveva posto fine allo scisma, era grande in Italia e Piero non doveva avere avuto difficoltà a documentarsi. La sua immagine monumentale si trova persino in una lastra a intarsio del 1434 di Domenico di Bartolo nel pavimento del duomo di Siena.
Domenico di Bartolo, Imperatore Sigismondo con i suoi ministri, 1434, pavimento del Duomo di Siena. |
Gli abiti dei due personaggi, come si è detto e come si può facilmente vedere, hanno molto sofferto. San Sigismondo indossa una tunica damascata dorata, orlata di rosso, con un motivo ad ananasso, manto azzurro foderato d’agnello, di cui mostrava il risvolto sulla spalla destra, aveva un calzare bianco e l’altro rosso (che sono tra parentesi i colori dell’antico scudo di Ungheria, a bande bianche e rosse), il trono era rivestito d’una gualdrappa verde.
Altra fonte di documentazione di Piero, può essere stato, come ci ha spiegato Silvia Ronchey nel suo Enigma di Piero (e nelle note del suo Regesto) il 05.Ritratto di Sigismondo di Lussemburgo, un dipinto, tempera su pergamena applicata su tavola (58,5x42 cm), attribuito a Pisanello, databile al 1432-1433 circa e conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Pisanello (?), Ritratto di Sigismondo di Lussemburgo, dipinto in tempera su pergamena applicata su tavola (58,5x42 cm), databile al 1432-1433 ca., Kunsthistorisches Museum, Vienna. |
Il ritratto venne effettuato all’inizio degli anni trenta del Quattrocento, quando l’imperatore Sigismondo del Sacro Romano Impero si recò a Mantova per insignire Gianfrancesco Gonzaga del titolo di marchese (1432), nel quadro di un viaggio in Italia che aveva toccato anche Milano (1431), dove ricevette la corona di re d’Italia, e che ebbe termine poi a Roma, dove incontrò Martino V (1433). Il ritratto, copiato in disegni e altre opere, divenne l’effigie ufficiale dell’imperatore. Così è probabile che nel 1451 Piero della Francesca si sia ispirato, come immediato riferimento, a una di queste derivazioni per dare le fattezze di Sigismondo a san Sigismondo nell’affresco Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo, dove riprese la medesima forma della berretta, ignorando però il materiale di pelliccia. Entrato nelle collezioni imperiali, in particolare quelle del castello di Ambras presso Innsbruck, il ritratto è poi passato al Kunsthistorisches Museum. L’attribuzione a Pisanello è comunque avvalorata dalla presenza di un disegno dell’imperatore di profilo rivolto a sinistra, con la stessa berretta, al Cabinet des Dessins del Louvre.
Pisanello, Busto dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, rivolto a sinistra, ritratto a matita nera su carta filigranata, Cabinet des Dessins del Louvre, inv. 2479 (mm 314 x 384), Parigi. |
Un altro ritratto a matita di Sigismondo porta il numero d’inventario 2339; in entrambi Sigismondo è ritratto di profilo. Come si può vedere in molti punti (primo fra tutti il copricapo di pelliccia) il ritratto conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna ricorda il disegno di Pisanello.
Piero della Francesca, Leggenda della vera Croce - L’Annunciazione (particolare), 1452-1459, San Francesco, Arezzo. |
Ma nell'affresco pierfrancescano dell'Annunciazione nel ciclo della Leggenda della vera Croce ad Arezzo, dall’alto compare la figura del Padreterno a mezzo busto che, sopra una nuvola, stende le mani inviando sulla Vergine, in forma di raggi di luce dorata, lo Spirito Santo grazie al quale avverrà l’Incarnazione e questa figura ricorda nel volto le stesse fattezze del san Sigismondo/imperatore Sigismondo ritratto nell'affresco riminese, come si può vedere dal confronto. Piero ne ripropone la stessa fisionomia in Cosroe, ed è infatti stato utilizzato lo stesso cartone.
Piero della Francesca, Leggenda della vera Croce - La battaglia di Eraclio e Cosroe (particolare), 1452-1459, San Francesco, Arezzo. |
Ancora nel ciclo della vera Croce, nella Battaglia di Eraclio e Cosroe, ecco il re persiano Cosroe che dopo aver trafugato la croce da Gerusalemme, per ornare il suo trono, viene sconfitto dall’imperatore bizantino Eraclio e sta per essere decapitato. Nel volto del re ritroviamo ancora le fattezze del venerando dell'affresco riminese.
Nel tempio di Rimini, tuttavia, San Sigismondo è pure rappresentato con la barba in una statua di Agostino di Duccio, nella cappella a lui dedicata, la prima a destra che precede l’ingresso alla Cella delle Reliquie, ma con aspetto del tutto diverso da quello del ritratto di Piero. Eccolo.
Agostino di Duccio, San Sigismondo, Cappella di san Sigismondo, Tempio Malatestiano, Rimini. |
Torniamo all'affresco riminese di Piero. Inginocchiato in primo piano è Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini dal 1432 al 1468, di fronte al suo santo patrono. Sigismondo, pur essendo di profilo nella tipica postura del “devoto” genuflesso sul gradino di una pedana e impettito a mani giunte, è collocato al centro della scena, con dimensioni maggiori e su un piano più avanzato rispetto al santo, e spicca nitidamente, anche a causa dello spazio vuoto dello sfondo del muro.
Intorno all’anno 1820 l’affresco, come si diceva, fu maldestramente restaurato dal pittore riminese Marco Capizucchi e vennero dipinte delle nuvole sullo sfondo, intese a suggerire uno spazio aperto. Comunque, furono successivamente rimosse. Nel 1785, proprio prima del restauro, Francesco Rosaspina fece quell’incisione all’acquaforte che abbiamo veduto sopra, molto fedele all’affresco, dalla quale appare che lo sfondo era uniforme e scuro. Il volto del principe di Rimini campeggia nel bianco del fondo, in uno spazio vuoto, che ne esalta, isolandoli, i duri lineamenti. Sigismondo Malatesta indossava calze rosse, un ferraiolo un tempo color vinaccia con rabeschi a melagrana, foderato di verde azzurro. II volto, riportato sull’intonaco con lo spolvero, usando forse lo stesso cartone servito per il ritratto del Louvre, è trattato con una luce più uniforme della figura del santo e che sembra quasi più reale dell’apparizione che ha dinnanzi. Si diceva del ritratto del Louvre: vediamolo in raffronto col dettaglio del ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta nell'affresco.
A sinistra: Piero della Francesca, Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta 1450-1451, olio e tempera su tavola di pioppo, cm 44,5 x 34,5, Parigi, Musée du Louvre. |
Il dipinto fu a San Pietroburgo, nella collezione Deloroff, fino al 1889, quindi a Volognano (Pontassieve) e poi a Milano, nella collezione Giuseppe D’Ancona; giunse alla Collezione Contini Bonacossi di Firenze verso il 1930; infine, dal gennaio 1977, è al Louvre, naturalmente dopo essere stata sottoposto ad approfondite analisi che hanno escluso l’ipotesi che si trattasse di un falso neoclassico del XIX secolo. Il primo ad attribuire con certezza l’opera a Piero fu nel 1942 Roberto Longhi, che riteneva che il ritratto fosse servito al maestro come modello per il dipinto di Rimini e sottolineò la perfetta corrispondenza, “anche di misura”, con l’affresco di Rimini. Raccontiamo questo perché dubbi sulla sua autenticità sono sempre stati sollevati da alcuni critici e storici dell’arte; per qualcuno si tratterebbe dell’esecuzione di un aiuto su cartone del Maestro. Tra chi ritiene che sia senza dubbio opera di Piero, si discute ancora se il dipinto è opera precedente o successiva all’affresco. Quello su cui non ci possono essere dubbi è che fu realizzata durante il soggiorno di Piero a Rimini.
C’è invece da chiedersi se abbia influenzato la medaglia di Matteo de’ Pasti che era già coniata entro il 10 ottobre 1450, oppure se è quest’ultima che ha ispirato Piero nei suoi ritratti di Sigismondo.
A livello stilistico il dipinto si inserisce nella ritrattistica dell’epoca. Si è visto come i profili degli Este di Pisanello avessero influenzato l’arte di Piero. Il profilo diventa espressione della singolarità dell’individuo. Il profilo medaglistico poi è interamente nella tradizione italiana di quel tempo che si rifaceva ai busti dell'antica monetazione romana.
Ecco come è ritratto Sigismondo Pandolfo Malatesta in una delle tante medaglie di Matteo de’ Pasti.
Eccone ancora un’altra per Sigismondo, questa volta con il Tempio (come sarebbe stato se terminato) al verso.
Matteo de’ Pasti, Medaglia per Sigismondo, con il Tempio al verso, bronzo, Ø cm. 4, Rimini, Museo della Città.
Quest'ultima fu rinvenuta durante i lavori di restauro del Tempio Malatestiano nel dicembre 1947. Di ritrovamenti di medaglie malatestiane appositamente nascoste finora ve ne stati quasi una trentina, attestate dal 1624 ai nostri tempi, e in vari luoghi (Tempio Malatestiano, Castel Sismondo, ma anche Rocche di San Giovanni in Galilea, Verucchio, Montescudo, Senigallia, Fano).
Qui di seguito abbiamo altri ritratti di Sigismondo Pandolfo Malatesta.
Agostino di Duccio, Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, 1455 ca., marmo, Ø cm 89. |
Questo è un bassorilievo in marmo di Agostino di Duccio; un calco realizzato nel 1995 dall’originale rilievo sulla parte non visibile del coperchio dell’arca degli Antenati nel Tempio Malatestiano si trova, sempre a Rimini, nel Museo della Città.
Abbiamo poi, nella cappella di S. Sigismondo, di cui abbiamo già veduto la statua di San Sigismondo, un altro bassorilievo di Sigismondo Malatesta su un pilastro sostenuto da due elefanti.
Bassorilievo di Sigismondo Malatesta su pilastro sostenuto da due elefanti., Cappella di s. Sigismondo, Tempio Malatestiano, Rimini. |
Ecco invece due medaglie di Pisanello per Sigismondo Malatesta, dove il busto di profilo, diversamente dalle immagini fin qui viste, è rivolto verso destra.
Infine lo ritroviamo, identificato fin dal 1909, nel Corteo dei Magi di Benozzo Gozzoli.
Benozzo Gozzoli, Corteo dei Magi - Sigismondo a cavallo, particolare della parete orientale, processione del giovane mago Gaspare, 1459, Palazzo Medici-Riccardi, Firenze. |
Benozzo Gozzoli, Corteo dei Magi - volto di Sigismondo, particolare della parete orientale, processione del giovane mago Gaspare, 1459, Palazzo Medici-Riccardi, Firenze. |
Benozzo aveva visto Sigismondo nella metà di aprile del 1459 quando, ospiti per una quindicina di giorni di Cosimo de Medici, Galeazzo Maria Sforza, primogenito del duca di Milano, e Sigismondo e altri autorevoli personaggi vennero per incontrare il papa Pio II, deciso ad organizzare una crociata contro i Turchi. Ma lo ritrae, essendo il dipinto più vecchio di quasi dieci anni di quello di Piero, con fattezze giovanili, come quelle che doveva avere nel 1439 quando Firenze accolse la delegazione bizantina del Concilio dell’Unione.
Sulla capacità di Benozzo di ringiovanire i personaggi non ho mai avuto dubbi. Ho sempre pensato, anche se capisco che è un’ipotesi azzardata, che questo ritratto di giovanetto, tanto angelico quanto determinato, che vediamo qui sotto (anche nel dettaglio del volto) fosse ancora Sigismondo o, comunque, una citazione di Benozzo dell’affresco di Piero.
.Benozzo Gozzoli, Corteo dei Magi - Angelo genuflesso (Figura intera), particolare della parete orientale, 1459 Palazzo Medici-Riccardi, Firenze. |
Benozzo Gozzoli, Corteo dei Magi - Angelo genuflesso (Volto), particolare della parete orientale, 1459 Palazzo Medici-Riccardi, Firenze. |
Accanto alla colonna di destra appaiono due immensi cani, uno bianco e l’altro nero, accosciati in una posizione antitetica. Le loro snelle membra e musi allungati li indicano come levrieri. Quello bianco è completamente visibile, essendo la sua testa girata verso s. Sigismondo, mentre quello nero è volto nella direzione opposta. Sulla sua testa appare una sorta di medaglione policromo rotondo, un “oculus”, col ritratto della fortezza eretta da Sigismondo nel 1446 e detta Castel Sismondo o Rocca Malatestiana. Il gruppo di cani nella composizione forma la base della colonna alla destra dell’osservatore.
I due cani – due levrieri e non due alani come qualche critico si ostina a dire – sembrano ignorare la scena dei due Sigismondi. Quello bianco guarda quietamente davanti a sé quasi non fosse interessato alla visione che trattiene assorto il suo padrone; l’altro, quello nero, alza le orecchie e guarda inquieto davanti a sé, come se avesse il timore di qualcuno che stesse arrivando a interrompere questo momento incantato.
I cani nell’affresco hanno dato luogo a interpretazioni simboliche di Maria Rzepinska (1971), una studiosa polacca dell’università di Cracovia, generalmente respinte dalla critica successiva, ma riportate con attenzione da Mario Salmi (1979). Quella che vediamo è un’azione sacra, ieratica, estremamente composta; peraltro accompagnata come è dalla aulica presenza dei due levrieri accosciati che sono perfettamente immobili come due statue egizie, dai colori opposti.
In un certo modo l’azione così fermata, fissata e arrestata, è resa da Piero partecipe dell’assetto architettonico. Vediamolo. Consiste in una cornice trattata a coppie di delicate cornucopie, che limitano per tre lati la composizione. A parte le due laterali, quella in alto toglie alla vista la parte superiore dell’architrave appoggiato sulle lesene e quasi tre quarti degli specchi marmorei laterali, l’ambiente immaginato da Piero è dunque più vasto di quanto ci sia lasciato vedere; ce lo fanno intendere, dando inoltre un aria di solennità alla scena, i grandi festoni - il cui motivo deriva dalla pittura parietale romana e che sono composti di alloro, quercia, con mele, pere, ciliegie, melagrane, ovvero frutti di diverse stagioni, che indicano tutto il ciclo dell’anno, e, anche agli; e in modo particolare, con un discorso prospettico per iniziati, le fughe delle lastre pavimentali, che come si può osservare non s’incontrano in un punto definito sulla linea d’orizzonte. Perdipiù il taglio della trabeazione, cioè l’elemento orizzontale sostenuto dalle colonne, da parte della cornice genera una voluta ambiguità spaziale.
Al centro della composizione è raffigurato lo stemma gentilizio dei Malatesta sopra Sigismondo con la famosa sigla SI, ripetuta nell’interno e nell’esterno del Tempio, in modo quasi infinito. Si cerca di far passare come sdolcinatura dannunziana, decadente e romantica, la tesi secondo il quale la S iniziale del nome di Sigismondo attanaglia nella stretta ferrea di un amplesso la filiforme fragilità della I del nome di Isotta. Questo forse perché, mentre l’Andrea Sperelli de Il piacere di Gabriele D’Annunzio, fa un acquaforte dove è disegnata la sua amante nuda in una vasca a tazza che gioca con un levriero, Pareva ad Elena essere deificata dall’amante, come l’Isotta riminese nelle indistruttibili medaglie che Sigismondo fece coniare in gloria di lei.
La sigla malatestiana, poi, è leggibile in entrambi i sensi, per cui da sinistra a destra sarebbe l’iniziale di Sigismondo (SI) e da destra a sinistra quella di Isotta (IS). Io mi fido degli Antichi. Cesare Clementini (Rimini, 1561-1624), autore dei due volumi del Raccolto istorico della fondatione di Rimino e dell’origine e vite de’ Malatesti (I, 1617-II, 1627) scrive a proposito del menzionato primo ritrovamento di medaglie malatestiane durante dei lavori di rammodernamento del castello voluti da papa Urbano VIII nel 1624, che in quell’occasione fu trovata: buona quantità di medaglie di bronzo grandi, col ritratto di Sigismondo da una parte, e dall’altra il disegno del castello stesso, con la quale v’erano anche delle picciole, col medesimo ritratto, e col geroglifico di lui, e d’Isotta, nel rovescio.
Intorno all’oculo con la veduta del castello, in caratteri più piccoli corre la legenda: CASTELLVM SISMONDVM ARIMINENSE MCCCCXLVI. La collocazione dell’oculo, ossia la piccola apertura di forma circolare con la veduta del castello, è eccentrica rispetto alla lastra in cui trova. Vediamone il dettaglio, attraverso una foto a colori ed una, molto più vecchia, in bianco e nero.
Piero della Francesca, Particolare Castel Sismondo, Rimini, Tempio Malatestiano, già in Cella delle Reliquie |
Dobbiamo certamente pensare che Sigismondo volle che fosse raffigurato accanto a sé il Castello che egli aveva fatto erigere a cominciare dal 20 maggio 1437 e che, per accontentarlo, Piero della Francesca dovette fingere nella parete un oculo da cui si potesse intravvedere la fortezza. Trovo abbastanza divertente che qualche storico dell’arte riminese riesca a scrivere che Piero, come il medaglista Matteo de’ Pasti, nella sua immagine che presto vedremo “allungò le torri ed il cassero, forse per rendere la composizione più adatta al tondo in cui doveva essere dipinta”. Questa bella e buona falsità solo per evitare di dire che nel 1826 con un deprecabile spirito di vandalismo, sotto il dominio pontificio, si rase al suolo la cinta esterna, si riempirono i fossati, si tolse il ponte levatoio, si abbattè la grande torre angolare e si accorciarono le altre, deturpando per sempre un monumento che possiamo solo immaginare come fosse in realtà dal disegno di Piero della Francesca e da quello di Matteo de’ Pasti. La parte dell’affresco raffigurante il castello è molto rovinata e molti particolari interessanti sono andati così perduti. Si vede però che la torre interna di ingresso alla fortezza nel dipinto originale è rossa, contrariamente a tutte le altre che sono chiare e la tradizione vuole che il castello fosse dipinto di bianco, rosso e verde con molti inserti in pietra e ceramica recanti iscrizioni e stemmi. Si noti che il pittore ha dipinto nella cornice inferiore dell’oculo che inquadra l’immagine la stessa scritta e la stessa data delle medaglie del Pasti raffiguranti il Castello. Vediamone alcune.
Non sarà mai detto abbastanza, oltre che del pregio artistico, del valore documentaristico della veduta col Castello che appare al verso di alcuni tipi di medaglie pastiane. La precisione delle linee e la nettezza del modellato danno un’idea abbastanza precisa del pittoresco disporsi di torri e mura in un insieme organico di alta efficienza bellica. Alcune medaglie di questo tipo recano la firma del Pasti, e la maggior parte la data del 1446, che non riguarda l’esecuzione della medaglia, ma è commemorativa dell’erezione del Castello (è anche lo stesso anno in cui Sigismondo conobbe la diciasettenne Isotta, prima su amante poi terza e ultima moglie). Questa che vediamo è stata trovata nelle mura di Castel Sismondo durante i lavori di restauro il 29 dicembre 1972. Quattro medaglie di questo tipo furono rinvenute insieme ad altre nel Tempio Malatestiano il 21 maggio 1948 sul capitello sinistro dell’arcone della prima cappella destra, che probabilmente fu messo in opera fra il 1450 e il 1451. La medaglia deve essere perciò datata al 1450 o anteriormente.
Più che devozionale, si è osservato che l’opera affrescata da Piero ha un valore celebrativo della conquista del potere e del diritto dinastico da parte del signore di Rimini. Pochi sono coloro che finora ne abbiano affrontato l’analisi del suo contenuto dottrinale e simbolico. Innanzitutto, quest’opera va considerata come parte integrante delle concezioni del Tempio Malatestiano, strettamente connessa ad esso sotto il profilo filosofico e simbolico. Va anche qui ricordato che la scena mostrata sull’affresco ha, per così dire, tre segmenti compositivi equivalenti: san Sigismondo, Malatesta e la coppia di cani. La monumentalità e natura ieratica, così come la sistemazione araldica di questa coppia, ha attirato l’attenzione di molti storici dell’arte. Rimane da discutere ancora un punto, finora non toccato. Anche se la profondità di prospettiva del ritratto è irreale e minima, esso è distintamente suddiviso in tre piani. Sul primo di essi appaiono i levrieri, sul secondo Malatesta e sul terzo san Sigismondo. Una simile disposizione degli accenti della composizione non poteva essere fortuita, né la comunicazione di una tale ieratica gravità alla coppia di cani poteva essere stata dettata da considerazioni soltanto formali. Nell’arte italiana non c’è nessun esempio di un’opera in cui i cani siano rappresentati in un ruolo simile, che costituisce, per quanto riguarda la composizione, un elemento equivalente in rapporto al patrono e al committente. Non si può non rimanere sorpresi di fronte alla presenza di cani — specialmente così esibiti e maestosi — nell’affresco di Rimini. Devono essere stati messi con qualche speciale intento. Io sono convinto che i misteriosi levrieri di Malatesta costituiscono una delle più importanti chiavi di volta per la comprensione della dottrina esoterica che, secondo il proposito del committente e dell’autore, fu celata nel complesso dell’insieme decorativo della chiesa. Il programma iconografico del Tempio nel suo insieme ha da molto tempo suscitato l’interesse degli studiosi. Le indagini sulla decorazione della chiesa sono rese difficili dal fatto che non vi è quasi nessun documento esistente che si riferisca ad esso. Gli archivi malatestiani di Rimini così come la biblioteca di Pandolfo andarono persi fin dal 1527 in occasione di un tumulto popolare.
Fin dall’inizio la chiesa a Rimini suscitò obiezioni da parte dei teologi cristiani a causa del peculiare carattere della sua iconografia. Pio II condannò la sua concezione con decise parole. Nei suoi Commentari scrive su Pandolfo una celebre invettiva: «Aveva in odio i sacerdoti e disprezzava la religione. … Ciò nonostante ha edificato un nobile tempio a Rimini in onore di san Francesco; ma poi lo riempì di tante opere gentili (i.e. pagane) che non sembra un tempio di cristiani, bensì di infedeli adoratori di dèmoni. Qui eresse una tomba per la sua amante, monumento bellissimo per la squisita fattura e il marmo prezioso, cui appose un’iscrizione secondo l’uso pagano di questo tenore: “Consacrato alla divina Isotta» (Pius II: Commentarii, II, 32). Vediamo la tomba incriminata.
Tomba di Isotta, Tempio Malatestiano, Rimini. I |
Il giudizio del pontefice su Sigismondo e sul suo Tempio è da sempre fonte di un certo imbarazzo nella gerarchia cattolica. Nondimeno, Pio II, Enea Silvio Piccolomini, era lui stesso un insigne umanista e un appassionato dell’antichità e per quanto riguarda Malatesta era in grado di avere, in circostanze diverse, una certa obiettività e persino stima. Infatti lo stesso Papa che combatté Sigismondo, lo scomunicò e lo fece bruciare in effigie, scrisse ancora di lui: eloquentia militari et arte praeditus. Novit historias; philosophiam non parva peritiam habuit (Dotato di grande eloquenza e abilità militare. Conosceva la storia e aveva non poca competenza della filosofia; Ibid.).
Anche a voler considerare l’opinione di Pio II sul “carattere demoniaco” come troppo estrema – in realtà si travisa la frase: Pio II non voleva dire che è il Tempio era “diabolico”, bensì che era demonico in senso orfico-platonico, cioè zeppo di rappresentazioni di “dèmoni”, ossia di esseri che si pongono a metà strada fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione di intermediare tra queste due dimensioni, il fatto che degli studiosi del XX secolo e contemporanei tentino di rappresentare il Tempio Malatestiano come un santuario di un culto puramente cattolico è ancora più sorprendente. Ancor oggi i daimones o eroti o putti neoplatonici (i bambini nudi con le ali), che papa Pio II osservava affollare la chiesa, vengono fatti passare per tanti “angioletti” e non per quei messaggeri divini che accompagnano l’uomo nel corso della sua vita come spiriti guardiani e la cui essenza è l’attività, come ben ci ha spiegato nei nostri tempi James Hillman nel suo Codice dell’anima.
Inoltre, in genere gli storici dell’arte che si sono occupati del contenuto nascosto del Tempio e dei suoi significati segreti hanno preso in considerazione soltanto la decorazione scultoria, trascurando l’affresco, non cercando in esso i significati metaforici e non associandolo mai alla “dottrina segreta” attribuitagli da Roberto Valturio. Che l’iconografia del Tempio celi significati arcani noti solo alla stretta cerchia della corte malatestiana fu infatti rivelato da Roberto Valturio, amico e consigliere di Sigismondo, che in un famoso passo del De Re Militari (XII, 13) allude, a proposito del Tempio, alla presenza di “simboli tratti dai più occulti penetrali della filosofia e altrettanto atti ad attrarre fortemente i dotti quanto a permanere nascosti al volgo”.
In ogni caso, sta il fatto che la natura ieratica della diade di levrieri che appare sull’affresco ha disorientato pressoché tutti gli investigatori, suscitando in alcuni di loro vaghe associazioni con l’Oriente o con l’Egitto.
Ma bisognerebbe cercare questa “filosofia celata” anche e forse soprattutto nell’opera del pittore, la cui sapienza era ben nota fra i suoi contemporanei, e che probabilmente la creò su suggerimento sia del glorioso Signore di Rimini sia di uno degli umanisti più insigni del suo tempo, Leon Battista Alberti. È Alberti che nel suo De Re Aedificatoria afferma: “Io vorrei che ne’ Tempii et le mura et il pavimento non fusse cosa alcuna che non fusse tutta filosofia”. Il carattere albertiano dell’architettura raffigurata sull’affresco è già stato fatto notare, ma pochi hanno finora prestato attenzione al fatto che i pilastri scanalati con capitelli fiorentini anticheggianti e i festoni di foglie e frutti sull’affresco si ripetono in un modo quasi identico in alcune delle cornici dei bassorilievo della vicina Cappella dei Pianeti, mentre in altri bassorilievi appaiono in una forma leggermente modificata. Queste somiglianze devono essere state intenzionali e intese a indicare delle associazioni concettuali tra l’affresco e i bassorilievi che, peraltro, furono completati successivamente.
Per tentare di comprendere il significato segreto celato nel dipinto di Piero della Francesca, dobbiamo perciò rivolgere la nostra attenzione ai levrieri, la cui sistemazione e colore contrastanti sono stati ammirati da molti critici. Qual è il motivo per cui questi cani si trovano accanto al committente inginocchiato, perché sono così enfaticamente messi in mostra e quale posto hanno nel programma filosofico del Tempio? Per rispondere a queste domande dobbiamo scoprire quale “carica simbolica” potrebbero aver avuto nel periodo in cui l’affresco fu eseguito, cioè nella metà del XV secolo, tutti gli elementi di questa raffigurazione e dunque considerare il simbolismo del cane e il significato della sistemazione antitetica e del contrasto cromatico. Ma questo richiederebbe una lunga indagine e un altrettanto lunga esposizione sul simbolismo del cane che nelle antiche tradizioni e miti caldei, persiani, indù, egizi e greci ebbe un importante e particolare ruolo. E non abbiamo sicuramente il tempo. Limitiamoci a dire che in generale questa duplice personificazione è riferita al culto solare e lunare, ai guardiani delle porte della notte e del giorno, sono i gemelli cosmici, l’uno solare e celeste, l’altro sublunare e ctonio, ossia terrestre.
Vorrei anche attirare l’attenzione sulle due “colonne albertiane” che sono di complemento al contenuto nascosto dell’affresco. Nel simbolismo cosmico due colonne o pilastri denotano l’eterna stabilità, mentre lo spazio libero tra esse è un simbolo del passaggio all’eternità. Una variante di questo simbolo si può trovare nelle dottrine esoteriche; tutte quante lo riferiscono al numero due, al concetto di dualità, diversità e complementarietà. Non mi dilungo a raccontare l’importanza, nella tradizione massonica, delle due colonne poste innanzi al Tempio e al loro simbolismo, perché rischierei di andare fuori tema. L’accenno sarà sufficiente.
Si accennava alle prime interpretazioni simboliche della polacca Maria Rzepinska del 1971, che, pionieristicamente, metteva in relazione i due levrieri con l’antica mitologia solare e lunare, il mito vedico degli Ashvin (associati alla bellezza, giovinezza, velocità, lo splendore dell’aurora e del tramonto) e con i Gemelli greci e, in generale, con l’astrologia. Ad esse reagì Marylin Aronberg Lavin, con una certa aggressività, ed esprimendo un notevole scetticismo. Per la Lavin i cani rappresentano la fedeltà e li interpreta come Fides catholica e Fides publica, la devozione religiosa e quella pubblica di Sigismondo, ovvero la duplice fede del devoto in Dio e nello Stato. Ricordiamo che presso i Greci, come presso i Romani, il cane era simbolo dell’affezione, della fedeltà e della protezione (si pensi al cane Argo di Ulisse che pochi sanno che era un levriero, o ancora ad Alessandro Magno e al suo levriero Peritas che lo accompagnò nelle sue travolgenti campagne militari e il re macedone fondò una città dandole il nome in memoria del suo fedele cane, così come fece a ricordo del suo assai più noto cavallo Bucefalo).
Ora, non solo le interpretazioni della Lavin e della Rzepinska sono diverse, cosa che non è sorprendente poiché possono verificarsi interpretazioni divergenti delle opere d’arte, specialmente di quelle rinascimentali. Ma quello che, a mio modesto avviso, trovo paradossale è il risultato di questa polemica. Entrambe le studiose partono dal medesimo assunto: i due cani simboleggiano qualcosa.
Ora, come alcuni sanno, e in special modo i Massoni, il simbolo, proprio dall’etimologia della parola greca sin-bàllein, mette sempre insieme una serie di verità, una serie di concetti, una serie di princìpi che si stratificano e vengono decrittati a seconda della capacità intuitiva di chi li esamina. Quindi, a differenza del segno, dell’emblema o del distintivo che contiene un’unica e sola indicazione, come ad esempio ogni cartello della segnaletica stradale, il simbolo racchiude in sé molteplici significati, talvolta apparentemente divergenti tra loro ma sempre intimamente correlati. Il segno è convenzionale, unilaterale, riferibile a un dato noto, si rivolge alla mente, è fine a se stesso. Il simbolo non ha nulla di convenzionale, ha sempre molteplici significati, si riferisce all’ignoto, si rivolge all’immaginazione, ha sempre valenze superiori alla realtà simboleggiata.
Agendo sull'uomo a livello personale sensoriale, psichico ed intellettivo, il simbolo ha un forte potere di evocazione delle conoscenze metafisiche primordiali, dall’Uomo conservate, seppure a diversi gradi di offuscamento, non nel subconscio – come suppone qualcuno - bensì nel superconscio. Ogni simbolo evoca sempre valori superiori a quelli materialmente espressi. Cerco di spiegarmi ancor meglio: una ruota dipinta sull’insegna di un riparatore di carri non è che un emblema del suo lavoro, un richiamo per i possibili clienti. La stessa ruota, a quattro o sei raggi, che troviamo scolpita in un tempio orientale ed occidentale, ha innumerevoli significati, da interpretare a seconda del contesto in cui è inserita. Può raffigurare il sole, il ciclo vitale, l’evoluzione, l’eterno ritorno, il divenire, l’irradiarsi da un unico centro dei diversi sentieri iniziatici. I simboli stimolano dunque la facoltà noetica (in linguaggio platonico intellettiva, in linguaggio psicanalitico “intuizione superconscia”) che è in noi, la facoltà più alta dell’interprete “nella misura del possibile”, cioè secondo il grado di ricezione del singolo o del gruppo. Questa facoltà più alta, che può incrementarsi man mano che si procede e ci si addentra nell’interpretazione, è, dovremmo dire in modo platonico, la sede “naturale” della Verità, della Bellezza, del Bene.
Per cui mi è davvero difficile comprendere la polemica tra la Lavin e la Rzepinska, a meno che i cani non siano dei semplici segni e abbiano un significato univoco.
Piero della Francesca, San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta - particolare dei levrieri, 1450-1451,
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Oppure, se vogliamo risolvere una volta per tutte la questione, potremmo aderire al pensiero di Benedetto Croce. Croce era assolutamente infastidito da quanti hanno “fame di allegorie e di ritrovamenti del significato”, irridendo gli stessi come “spiriti bizzarri e vanesi che par che immaginino che, oltre la storia visibile, ce ne sia un’altra invisibile, la quale ad essi è o sarà concesso svelare con lo stabilire sottili confronti, da loro immaginati, tra i fatti: sicché i loro racconti storici prendono aria di scoperte di cospirazioni e di intrighi ed essi di abilissimi investigatori o piuttosto poliziotti.”.
E, allora, molto prosaicamente, i levrieri raffigurati non sono altro che i cani preferiti da Sigismondo Malatesta, i cani dei principi e i principi dei cani. Questo, dunque, non è altro che il ritratto dell’elegante principe accompagnato dai suoi levrieri. Quelli con cui – ho sempre immaginato – faceva lunghe cavalcate nella foresta di pini marittimi tra l’abbazia di San Giuliano di Rimini e a ridosso del mare, uno stacco assoluto dal quotidiano senza sensi di colpa, la perdita della cognizione del tempo. Sigismondo caracolla, Bianca e Nero, li chiamerò così, corrono come il vento, si fermano per annusare una traccia, poi si voltano per vedere se Sigismondo c’è. Tutti, cavaliere e levrieri, fanno finta di non cercarsi. Tutti e tre, il condottiero e i due cani, sono stati addestrati per cacciare, superando in velocità, la loro preda. Questa è letteratura, anzi mie povere prove, ma ci sta anche l’interpretazione concreta di Croce, dal momento che vi sono molte lettere dei Medici, nell’archivio fiorentino, che attestano la loro richiesta di levrieri a Sigismondo Malatesta, che quindi doveva averne un allevamento assai pregiato e tenuto in gran conto tra i principi italiani. Lo testimonia infine l’inventario dei beni del principe di Rimini contenuti nel Castello stilato subito dopo la sua morte il 9 ottobre 1468: “In la Camara dei panni”, tra gli eleganti abiti di Sigismondo e Isotta, si trovavano “cinque colari de cano, tri fornidi d’ariento e dui deffornidi. Item uno colaro de cano de crimixino fornido d’ariento. Item tre fornimenti de colaro de cani de otone”.
Ma la loro dimensione e il loro posto nell’affresco sono praticamente identici al ruolo del patrono e del “devoto” e questa situazione senza precedenti richiede una spiegazione. Un tale approccio artistico diverso, una simile monumentalità devono corrispondere a qualche funzione diversa.
Ebbene, credo che, sulla scia della critica come si è finora andata sviluppando, che l’interpretazione esoterica dell’affresco debba senza dubbio basarsi su coppie non antinomiche ma complementari: Santo/fedele - Maestro/iniziato - Cielo/terra - Tempio/ castello - Interno/esterno - Fedeltà/vigilanza - Devozione religiosa/ devozione pubblica - Religione/stato - Contemplazione/azione - Sapienza/Forza.
Potremmo ancora pensare a Platone che nel Fedro, nel famoso mito del carro e dell’auriga, riferendosi ad altri animali, considera i due destrieri, l’uno bianco e l’altro nero, due poli dell’anima, uno con la tensione verso l’alto, lo spirituale, l’altro verso il basso, il materiale. In quasi tutte le tradizioni, l’animale rappresenta la dimensione pulsionale e istintiva dell’essere umano. Roberto Assagioli, fondatore dello psicosintesi, allievo di Freud e Jung, a proposito del ciclo del Graal, che non occorre qui sottolineare quanto fosse importante nella cultura medioevale e rinascimentale, ci insegna: “Titurel trova e sceglie i suoi collaboratori e crea così il Gruppo e ne dirige le attività. Questo è un simbolo della psicosintesi interindividuale. In collaborazione, i Cavalieri costruiscono il Castello e il Tempio; il Castello è un simbolo di potenza, mentre il Tempio è il simbolo dell’aspetto religioso, dell’Amore, il luogo di comunione con lo Spirito…il Castello viene costruito a difesa contro gli attacchi ostili dell’intero territorio scelto quale dimora dei Cavalieri; mentre il Tempio è il luogo dove essi compiono le loro cerimonie… Il Castello rappresenta l’aspetto umano ed il rapporto col mondo esterno, e il Tempio rappresenta la vita interiore e la sorgente dell’ispirazione per le attività esterne”.
Senza dubbio Elémire Zolla vi avrebbe veduto l’immagine rinascimentale dell’androginizzazione con la fusione tramite incrocio. La reciproca bramosia dei due opposti complementari (simboleggiata dai cani) genera una spirale. Nei testi alchemici, quando ci si trova in presenza di due animali della stessa specie ma di sesso differente, come ad esempio un cane e cagna, sovente raffigurati con colori diversi, stanno a significare lo Zolfo ed il Mercurio preparati in vista dell’opera, o ancora il fisso ed il volatile. Il maschio rappresenta allora il fisso, lo Zolfo, e la femmina il volatile, il Mercurio. Uniti, gli animali esprimono il congiungimento, le nozze, il matrimonio dei due elementi.
Sintetizzando abbondantemente si potrebbe dire che il simbolo della coppia di levrieri, in un certo modo, riunisce i due attributi (brahmana e ksatriya), uno la saggezza e l’altro la forza, uno l’autorità spirituale che dirige, l’altro il potere temporale che agisce. Nella Tradizione indù brahmani e ksatriya sono detti “nati due volte” (dvija), perché attraverso la upanayana, ossia l’iniziazione avviene una “seconda nascita”, che è in effetti quella avvenuta a Sigismondo con la sua iniziazione al cavalierato.
Quando qualche Fratello Massone, in visita al Tempio di Rimini, mi chiede cosa rappresentano i cani me la sbrigo dicendo che chiaramente sono il Copritore Interno e il Copritore Esterno. Mi spiego per i profani: sono i custodi che vigilano sull’integrità di uno spazio sacro dove si svolge l’iniziazione e che non permettono a nessuno di entrare se non ritualmente. Sono, insomma, coloro che assicurano la protezione del Tempio da elementi esterni, che potrebbero compromettere la sicurezza degli iniziati e la segretezza dei lavori rituali. Iniziazione deriva dal latino in (dentro, interno) e ire (andare); dunque andare dentro se stessi, entrare in qualche cosa. Nell’accezione più specifica significa: entrare in una nuova dimensione di coscienza. Nel mondo greco-romano, la teleté era l’Iniziazione ai Misteri, dal verbo teleo (rendere perfetto, iniziare ai Misteri).
L’interpretazione della Rzepinska conduce verso collegamenti con l’astrologia (l’iconografia della Cappella dei Pianeti) e con la filosofia di Platone, che Malatesta venerava. Rimaniamo nella filosofia platonica ma spostiamoci per un momento a guardare un’altra coppia. Questa è nella Cappella degli Antenati e Discendenti. La prima immagine qui sotto ci permette anche, tra parentesi, di vedere alcuni dei dèmoni denunciati da Pio II.
Veduta della Cappella degli Antenati, Tempio Malatestiano, Rimini. |
Particolare della Cappella degli Antenati, Tempio Malatestiano, Rimini. |
La tomba dove furono posti resti degli antenati di Sigismondo è, nella prima cappella a sinistra del Tempio, in una nicchia interna, coperta da un sontuoso drappeggio gotico in forma di baldacchino di blu laspislazzulo sulla parete di sinistra ed è adornata da due bassorilievi che proclamano la fama e il trionfo di Sigismondo e della sua famiglia e che è l’espressione più diretta dell’iconografia dinastica del principe riminese. Le due sculture sono unanimemente interpretate come due Trionfi, quello di Minerva sul lato sinistro e quello di Scipione nel lato destro, in breve come ci informa l’iscrizione centrale nello scompartimento al centro tra i due bassorilievi monumentale che dichiara: SIGISMUNDUS PANDULFUS MALATESTA PANDULFI F. INGENTIBUS . MERITIS . PROBITATIS . FORTITUDINIS . QUE. GENERI . SUO . MAIORIBUS . POSTERISQUE, in essi si illustrano i meriti di probità e di forza di Sigismondo e le benemerenze della famiglia Malatesta nelle imprese culturali (Il trionfo di Minerva) e nella gloria ottenuta con le vittorie militari (Il trionfo di Scipione). Abbiamo quindi, ancora una volta, la coppia sapienza/forza o se volete, la benemerenza sapienziale e quella pubblica, o ancora la doppia virtù interna ed esterna, spirituale e materiale, la coppia archetipica in chiave psicanalitica di Tempio e Castello, l’eccellenza filosofica e quella militare del mestiere delle armi che era la professione di Sigismondo quale condottiero. Lo stesso chiaro messaggio è espresso attraverso i simboli vegetali nel fascione sotteso al tempio di Minerva e al trionfo di Scipione, l’eroe romano che veniva reputato capostipite dei Malatesta. Un nastro tiene unito l’alloro con l’edera e l’ulivo e nell’iscrizione che corre incisa lungo il fascione si legge: SIGISMUNDUS PANDULFUS MALATESTA PAND . F. INCLYTO GENERI SUO DEDIT (Sigismondo Pandolfo Malatesta figlio di Pandolfo dedicò alla sua famosa stirpe). Se ci è noto il significato dell’alloro come simbolo della virtus, della gloria militare di cui in quel momento Sigismondo era carico, e dell’ulivo come un omaggio classico a Minerva, alla sapienza, l’edera promette alla stirpe dei Malatesta quel superamento della morte che garantisce la fama procurata da Sigismondo con le arti rappresentate nell’impresa del Tempio. Ancora una volta qui si indica il Malatesta Maestro dell’arte bellica e militare e Maestro dell’arte filosofica e contemplativa.
Così come per la sorprendente presenza insistita degli elefanti ci è lecito pensare per una tale profusione d’immagini che Ciriaco Pizzicolli, detto Ciriaco d'Ancona (1391-1452), Antiquarius e viaggiatore, non avesse raccontato a Sigismondo Pandolfo Malatesta di aver veduto in Egitto, nel 1435, non solo statue di elefanti ma anche i suoi cani preferiti dipinti sui muri delle tombe dell’Egitto, che era stato tra i primi a visitare. Naturalmente non vi sono prove, sono solo ipotesi.
Abbiamo la netta coscienza che il sapere è una conquista snervante al termine di una lunga caccia in cui alla fine il cacciatore diviene la cosa cacciata come nel De gli eroici furori di Giordano Bruno, quando ci racconta di nuovo il mito di Atteone, il leggendario cacciatore, che dopo aver sorpreso Artemide nuda che si bagnava in una fonte, fu da lei mutato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. Ci spiega Bruno che, come si sa nutriva grande simpatia per la religione egizia, che mentre i mastini, nel mito di Atteone, rappresentano la tenacia della volontà, i veltri, ossia i levrieri, simboleggiano l’agilità dell’intelletto. Irritabili, lunatici, indipendenti e impudenti, ma quando vogliono affettuosissimi saranno sicuramente entrati in silenzio dentro la sua vita fin da quando era ragazzo, come sono entrati nella mia vita e in quella di Adele, mia moglie, anche se lei preferisce la versione più piccola. Cani che quando corrono passano l’80% del tempo in aria. Quanto di più vicino al volo, un animale terrestre possa ottenere.
Lapo (Cayman dell'Attimo Fuggente). |
Cino. |
Ma sto per avviarmi alla conclusione. Se nel sofisticato ed enigmatico gioco di rimandi e sovrapposizioni [Sigismondo è inginocchiato di fronte al suo patrono San Sigismondo di Burgundia, ma è anche di fronte al vecchio imperatore Sigismondo di Lussemburgo che lo aveva fatto cavaliere il 3 settembre 1433), sarebbe ancora lecito pensare, come vuole Walter Seitter (nel suo saggio Was für Bilder gibt es von Plethon, “Quali immagini ci sono di Pletone?”), che nel venerabile vecchio assiso in trono sarebbe anche “pluri-codificata” e ritratta la figura di Giorgio Gemisto Pletone. Comunque sia, l’affresco rappresenta l’iniziazione di Sigismondo. Fortunatamente questa ipotesi non è stata avanzata da me che altrimenti passerei come un monomaniaco di Giorgio Gemisto Pletone. Bensì da uno studioso tedesco che è spesso in disaccordo con Silvia e con me circa le nostre identificazioni e che ha cominciato ad occuparsi della questione con un saggio pubblicato nel 2006: Walter Seitter, Gibt es ein Bild von Plethon? (“C’è un ritratto di Pletone?”). Tale è l’ipotesi avanzata da Seitter, sostenuta, a parer mio debomente, dalle iscrizioni greche che ci sono nel Tempio nonché dalla sepoltura nel Tempio, proprio nell’arca, il sarcofago esterno, prospiciente la finestra che dava luce all’affresco di Piero, come possiamo vedere dalle seguenti foto.
Arca di Giorgio Gemisto Pletone, Tempio Malatestiano, Rimini. |
Reca l'iscrizione sull'arca: "Di Gemisto Bizantino, de’ filosofi del tempo suo principe, la spoglia mortale Sigismondo Malatesta, figlio di Pandolfo, condottiero nella guerra Peloponnesiaca contro i Turchi, per l’immenso amore di cui arde verso gli eruditi, quivi curò affinché fosse trasportata e onoratamente sepolta". Così letteralmente dal latino.
Come è noto, Sigismondo Malatesta, dopo la sua scomunica e le sue disgrazie politiche, per salvare la sua vita dovette sostenere, al soldo della Repubblica di Venezia, una crociata contro i turchi nel Peloponneso; non li scaccia dalla Morea come veniva allora chiamata la penisola greca, ma gli riesce di liberare nel 1464 a Mistrà il suo “santo sepolcro”: sottrae i resti mortali di Pletone, li porta con sé a Rimini e li seppellisce sotto le arcate del Tempio Malatestiano. Nell’affresco di Rimini si sovrapporrebbe quindi un’altra iniziazione, quella alla filosofia di Platone che Sigismondo avrebbe ricevuto dallo stesso Pletone nel 1439. O meglio, più che alla filosofia platonica ai “misteri platonici” come racconta Marsilio Ficino nel 1492 nel suo proemio alla traduzione delle Enneadi di Plotino. Vale la pena ricordare che il verbo mueô, in greco da cui deriva il termine misteri, vuole anche dire, in modo assai preciso, iniziare ai misteri e, in pari tempo, istruire (ma anzitutto istruire senza parole come avveniva in effetti negli Antichi Misteri) e consacrare. Mystes, poi, è l’iniziato ai misteri.
E allora ha ragione uno studioso warburghiano: I misteri pagani rinascimentali furono concepiti per iniziati: richiedono quindi un’iniziazione. (Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento).
Abbiamo parlato solo di personaggi celebri. È venuto il momento di concludere rendendo un omaggio agli operai senza fama che hanno lavorato al Tempio di Rimini. I magistri cum machinis, i maestri comacini, gli antenati dei massoni:
Miniaturista Giovanni da Fano, L’elevazione del Tempio Malatestiano, da un codice dell’Hesperis di Basinio. Oxford, Bodleian Library (ms. Oxon. Can. Class. lat. 81, f. 137r). |
Miniaturista Giovanni da Fano, L’elevazione del Tempio Malatestiano, da un codice dell’Hesperis di Basinio. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal (ms. 630, f. 126r). |
Una lunga tradizione vuole che questi siano disegni ideati o ispirati da Matteo de’ Pasti.
Vediamo questi operai senza nome e senza fama al lavoro, con i loro grembiuli, i loro maglietti, squadre e compassi a scolpire e lavorare faticosamente le pietre del Tempio, intenti come sempre, come noi, a sgrossare la pietra grezza.
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Elaborazione degli appunti per l'intervento di Moreno Neri al 17° CONVEGNO PUBBLICO della L∴ ALBERTO MARIO N. 121 all'OR∴ DI SANSEPOLCRO
Le iniziazioni di Piero della Francesca: la Flagellazione e il Sigismondo Inginocchiato
Sala Consiliare del Comune di Sansepolcro
Via Matteotti, 1
Sabato 27 Ottobre 2012, ore 16:30
Con il Patrocinio di:
Comune di Sansepolcro
Grande Oriente d’Italia
Palazzo Giustiniani
Collegio Circoscrizionale dei
Maestri Venerabili della Toscana
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