venerdì 29 maggio 2015

"L'infinito è dalla parte di Malatesta" e Montherlant menzionati da Davide Brullo

Sempre navigando su TOR e "googlandomi" trovo questo articolo di Davide Brullo che qui sotto riporto. Il link per vederlo in originale è il seguente:
http://www.dcult.it/istrione-henry-de-montherlant-toreador-calciatore-accademico-di-francia-si-suicido-per-egoistica-vanita/


Scrive Réné Guénon ne La crisi del mondo moderno: "Chi è qualificato per parlare in nome di una dottrina tradizionale non deve discutere con i «profani» e non deve indulgere in una qualsiasi «polemica». Egli deve solo esporre la dottrina così come è a coloro che possono comprenderla, denunciando in pari tempo l’errore dovunque esso si trovi, facendolo risultare tale col proiettare su di esso la luce della conoscenza vera. La sua funzione non è di suscitare una lotta e di compromettere con essa la dottrina, ma di formulare quel giudizio di cui egli ha la facoltà se davvero possiede i principi che debbono ispirarlo infallibilmente. Il dominio della lotta è quello dell’azione, è cioè il dominio individuale e temporale; il «motore immobile» desta e dirige il movimento senza esser da questo trasportato. La conoscenza illumina l’azione senza partecipare alle vicissitudini di essa. Così ogni cosa resta sul suo piano, nel grado che le corrisponde nella gerarchia universale.
Ma nel mondo della decadenza moderna dove si potrebbe ancora trovare il concetto di una vera gerarchia? Non vi è cosa o persona che sia nel posto in cui dovrebbe trovarsi normalmente. Gli uomini non riconoscono più alcuna autorità effettiva nell’ordine spirituale, alcun potere legittimo in senso superiore e sacro nell’ordine temporale. I «profani» si permettono di discutere su cose sacre, di esse disconoscendo il carattere se non pure l’esistenza. È l’inferiore che giudica il superiore, è l’ignoranza che impone limiti alla sapienza, è l’errore che scalza la verità, è l’umano che si sostituisce al divino, è la terra che va a predominare sul cielo, l’individuo facendosi la misura di tutte le cose e pretendendo di dettare all’universo leggi tratte tutte dalla sua ragione relativa e defettibile. «Guai a voi, guide cieche!» è detto nel Vangelo. Oggi si vedono infatti dappertutto ciechi che conducono altri ciechi e che fatalmente li porteranno all’abisso, in una comune fine, se non verranno fermati in tempo."
Non vi è dubbio alcuno che in questa epoca di decadenza anche sul Tempio Malatestiano, uno dei maggiori monumenti esoterici della nostra Italia, le "guide cieche" pullulino e gli ignoranti la facciano da padroni.
 

Che differenza c'è tra Sigismondo Pandolfo Malatesta e i piccoli governanti odierni? Questa! che ci indica proprio Montherlant quando diceva che:

Si amava l’oro perché dava il potere e col potere si facevano delle grandi cose. Adesso si ama il potere perché dà l’oro e con quest’oro se ne fanno di piccole.



Istrione Henry de Montherlant, toreador, calciatore, accademico di Francia, si suicidò per egoistica vanità. Grande grandissimo scrittore

di Davide Brullo Il 9 luglio 2013 In Il Salieri


Un acerrimo amico mi manda il lapidario messaggio: «quando arriverà a questo livello mi faccia sapere». In allegato, la prima pagina de il Giornale del 23 maggio, con l’ordine di leggere il “Cucù” di Marcello Veneziani. Titolo tremendo (“Suicida contro il suicidio della civiltà”) sotto il quale il giornalista cuce un pensiero intorno alla morte di Dominique Venner, 78 anni, scrittore e storico, che il 21 maggio è entrato nella cattedrale di Notre Dame, Parigi, e si è sparato, non gli andava la brutta china che ha preso l’Occidente, in particolare il fatto che la sua patria abbia concesso per legge il matrimonio a persone che condividono il sesso.
Veneziani scrive che «è comunque un gesto di grandezza, sulla scia francese di Henry de Montherlant». Fermiamo il fotogramma qui. Montherlant, tra i geni della scrittura di Francia, con l’infinita fame di scavare l’uomo fino al più piccolo istante perversione, non si uccise per passione politica o per una poetica dell’indignazione. Attese il 21 settembre del 1972, giorno dell’equinozio di autunno, e se ne andò per egoistica vanità: non accettava la vecchiaia. Scegliere come morire: esiste atto più sciocco e più divino? Diede disposizioni affinché gli amici spargessero le ceneri a Roma, un po’ nel Tevere un po’ a inargentare i Fori imperiali.
«Se cercassi Dio, troverei me». Questa è una frase di Pierre Costals, eroe assoluto di Montherlant, pronunciata dall’alto de “Le ragazze da marito”, il primo romanzo di una serie di quattro, accerchiati dal medesimo titolo “Jeunes filles”, pubblicati tra il 1936 e il 1939. Adelphi, nel 2000, cominciò, per merito di Cesare Colletta, a tradurre il ciclo: il romanzo è francamente strepitoso. Qualche gonzo universitario potrebbe venirvi a dire che il misogino, libertino e glaciale Pierre Costals sia una sorta di Andrea Sperelli, ma il giudizio è uno sparo a salve: Montherlant deprime la lussuria retorica di D’Annunzio, la sua scrittura è un pugnale di vetro, la mente del marchese de Sade nel corpo di Pascal. Insomma, un capolavoro. Ragion per cui, Adelphi lasciò perdere, terminò la statua editoriale alle ginocchia: gli altri tre romanzi non sono stati tradotti né sono in previsione di essere pubblicati.
Eppure, Henry de Montherlant è un istrione, uno dei rari scrittori seducenti, che «sfugge a ogni classificazione», guidato da «un’estetica del contrasto e della diversità», dotato della «stessa impietosa lucidità dei maggiori moralisti. I suoi maestri? Epitteto e Marco Aurelio, ma anche Petronio e Anacreonte, Plutarco e Seneca» (Y.-A. Favre). Audace (a quindici anni comincia a toreare, a trenta un toro gli perfora il polmone destro), atletico (tra l’altro, è un calciatore capace), nel 1960 fu eletto tra i santissimi dell’Académie française (i 40 titani della cultura di laggiù: sui suoi scranni si sono assisi Montesquieu e Marguerite Yourcenar, Henri Bergson, Victor Hugo, Voltaire, Paul Valéry), sulla seggiola numero 29 (che è stata di Ernest Renan e di Claude Lévi-Strauss, attualmente la occupa Amin Maalouf), ma in sostanza nel pantheon dei grandi, per snobismo, non si fece mai vedere. Individualista rovente, negli anni dell’occupazione francese sponsorizzò il generale Pétain, i suoi scritti ottennero ciò che si prefiggeva: fu osteggiato dai resistenti e fu incompreso dai nazisti. «Ce l’ho con Montherlant per essere stato così inferiore alla propria grandezza»: così la Yourcenar riassume il demonico genio di Montherlant.
Sostanzialmente ignorato dall’editoria attuale (che ci logora con romanzi ovvi e soporiferi e ha terrore di simili bestie strane, sacre), non era così qualche decennio fa. Nel 1952 l’editore Bompiani commissiona a due numeri uno (Massimo Bontempelli e Camillo Sbarbaro) la traduzione dei testi teatrali più celebri di Montherlant, “Il gran maestro di Santiago”, “La regina morta” e “Malatesta”. E già, cari miei, Montherlant vede nel viso di Sigismondo quei caratteri («la sua irrequietezza, la sua volubilità, le sue contraddizioni») che animano i suoi eroi. Il “Dramma in quattro atti” viene principiato nel 1943, settant’anni fa, e licenziato nel 1947, Raffaelli ne ha stampato una edizione deliziosa nel 1995. La fratellanza di Malatesta con Montherlant si esplicita in un testo programmatico, “L’infinito è dalla parte di Malatesta”, pubblicato nel 1951 ed edito da Raffaelli (con appendici curate da Moreno Neri) nel 2004. In esso Montherlant rintraccia una soddisfacente parentela con il Malatesta, per tramite della nutrice, «è innegabile che la donna che mi diede il seno aveva legittimamente il medesimo blasone che aveva Sigismondo Pandolfo Malatesta», quasi che il condottiere fosse «la mia forza e il mio veleno». Nei suoi pensieri “malatestiani” Montherlant ci svela che nel tempio di Rimini «uno dei canonici» era all’epoca «un fedele di Sigismondo», commisura il cranio del Malatesta con quello di Mussolini, obbliga la dama di viaggio a recarsi da Roma alla Gambalunghiana per procacciarsi documenti storici. Il testo scenico è di traslucida grandezza («il mare che batte le spiagge di Rimini e vi si frange ripete il nome di Malatesta»), Sigismondo è un po’ Federico II, un po’ Amleto, un po’ Orson Welles. Fu messo in scena la prima volta a Parigi, nel 1950 (il Malatesta è Jean-Louis Barrault, attore di pregio, ha lavorato con Max Ophuls, Jean Renoir e Ettore Scola), ebbe una sessantina di rappresentazioni, il 28 luglio 1969 sbarcò a Rimini, in Castel Sismondo. Allora il tiranno riminese prese il volto di Arnoldo Foà, Luigi Pasquini sul Resto del Carlino, il giorno stesso, avvicinò la figura del Malatesta a quella di Federico Fellini. A lato, un articolo scritto da Montherlant, un’ode alla riminesità del Malatesta, «uno che seppe riunire in sé ferocia e tenerezza, capriccio e costanza, religione e irreligione». Ma la sola religione rimasta all’Italia, in questi vaghi tempi, è sfregiare i grandi, infangare la sapienza che fu, fregandosene. 


La copertina del libro
Due foto di Montherlant
In una foto di Davide Minghini, scattata il 28 luglio 1969 a Castel Sismondo, 
il Fratello Arnoldo Foà (1916-2014)
interpreta il Malatesta di Montherlant.
Arnoldo Foà era un Fratello del Grande Oriente d'Italia, iniziato 
nel 1947 nella Loggia “Alto Adige” all'Oriente di Roma.

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