A L.S., senza la cui “ignoranza”
mai mi sarebbe venuto in mente un tale articolo.
Credo
sia molto più bello l’impegno serio rivolto a questi argomenti, quello che si
profonde facendo uso dell’arte dialettica e prendendo un’anima adatta nel piantarvi
e seminarvi discorsi con conoscenza che siano in grado di venire in aiuto a se
stessi e a chi li ha piantati, che non restino privi di frutto, ma ricchi di seme
da cui germoglino altri discorsi ancora in altri uomini, così da rendere immortale
questo seme facendo in modo che chi lo possiede attinga al massimo di felicità possibile
per un uomo. (Platone, Fedro, 276
E-277 A)
Secondo
quella che piace a me e ad altri studiosi definire la Tradizione unica, cioè le
verità della filosofia perenne, una delle virtù senz’altro da praticare è la
mansuetudine (praiótēs), a sua volta una delle sotto-virtù della
virtù cardinale chiamata fortezza (andreía).
Oggi con sinonimi più in voga si preferisce chiamarla gentilezza, mitezza o
tolleranza, allo stesso modo in cui, sempre odiernamente, invece di fortezza si
predilige la locuzione “forza d’animo”.
Per
quanto si cerchi la maestrìa che non è altro se non la padronanza di se stessi,
vale a dire la capacità di aggiustare e rettificare quelli che sono i nostri
pregiudizi, preconcetti e opinioni per sentito dire, sappiamo bene che non
siamo padroni dell’anima del prossimo. Se, avviando un dialogo con un’altra
persona, non siamo in grado di convincerla dei suoi errori e della bontà delle
nostre ragioni, siamo noi che non siamo stati capaci di spiegarci bene,
adattandoci al suo livello di coscienza, e non lui che non ci ha capito. O, più
in generale e di solito, abbiamo fatto finta di non capire che la persona a cui
ci siamo rivolti era del tutto inadatta al dialogo. Dobbiamo pertanto
rimproverare solo noi stessi ed è del tutto inutile irritarsi con l’altro. Occorre
renderci conto che i suoi errori sono delle fissazioni.
Vanno
davvero chiamate così: fissazioni, perché un neurobiologo vi dirà che l’uomo
medio elabora circa 60.000 pensieri al giorno. Il che è sorprendente! Ma altrettanto
desolante è che la quasi totalità di questi sono quelli di ieri. Ognuno di noi
è, malinconicamente, un fascio di riflessi condizionati, di nervi costantemente
scatenati da persone e circostanze che producono esiti prevedibili, un
organetto meccanico che troppo spesso ripete il medesimo ritornello. Un fisico
vi direbbe che colmare la distanza tra apparenza e scienza è uno sforzo enorme.
Un metafisico – dell’Occidente o dell’Oriente non importa – vi spiegherebbe che
l’apparenza, l’opinione,
l’ignoranza, l’illusione, sono tutti veli che celano il piano della Realtà e
della Libertà.
Ciononostante
vi sono sempre stati comunque uomini che anelano alla conoscenza. Persone che
non si limitano alle apparenze, né tantomeno a pensare sempre quelli che
credono essere i propri pensieri, ma che spesso, nel modo rappresentato da
Orwell nel Grande Fratello, sono invece
controllati e manipolati. Persone che vogliono prestare attenzione a tutto
quanto viene di volta in volta e da altri propri simili pensato nel tentativo
di scorgere direzioni, orientamenti, sensibilità, svolte, trasformazioni, crescite.
Persone che sono dotate di grande apertura e di capacità di ascoltare e di
interloquire, che non credono di essere possessori della verità, ma che, privi
di qualsiasi insulsa tracotanza, pensano che alla verità e al bene ci si possa
avvicinare dandosi modi di vita realmente liberi improntati alla
partecipazione, trasparenza e onestà intellettuale e assegnando per primi al
loro movimento di hillmaniana “fare anima” un sistema “inclusivo”. Proprio come
salmoni che risalgono la corrente contraria e avversa dell’attuale e diffuso mainstream che è la crescente tentazione di chiudersi, di ripiegarsi nelle
consuete abitudini e in un’identità, di restringere il proprio mondo a un insieme
circoscritto e autoreferenziale, falsamente rassicurante e criminalmente quasi
tribale di comode coordinate che li istigano a parlare anche di cose di cui
nulla conoscono.
Ci sono invece persone che
cercano di costruirsi, che si interrogano sul proprio rapporto con la società e
il mondo che li circondano e che si chiedono cosa possono fare per primi per
cambiarli e migliorarli, mettendo a confronto esperienze, stili, convinzioni,
tesi e giungendo, dopo molte discussioni, a conclusioni e, ancor meglio, a
conseguenti azioni condivise, realizzando un perfetto accordo tra pensiero e
opere.
Da sempre il pensiero
filosofico – e quello politico che, idealmente, ne dovrebbe essere la sua
espressione pratica più alta – trae la propria forza dalla capacità di integrare
una pluralità di forme e attività di pensiero, senza chiudersi nelle mura di un
pensiero unico, ma spalancando le porte della propria mente e scardinando molti
dei riflessi ben condizionati che ci fanno guardare le cose in modo
convenzionale e ottuso. È una disciplina che gli Antichi, meno distratti e
molto meno manipolati di quanto noi oggi siamo, avevano già investigato a fondo.
Gli Antichi (che come già detto quasi sempre avevano ragione) avevano compreso
che la conoscenza non è solo un patrimonio individuale ma anche comunitario.
Non è fatta solo di un lavoro singolo, di ricerca e studio, di riflessione e meditazione,
ma anche di confronto e dialogo, di comunanza di vita: la nostra stessa cultura
“occidentale” o addirittura “italiana” include elementi significativi che
provengono da altre culture. Il vero “investigatore” (della verità) scompiglia
le carte delle nostre rassicuranti e ottuse certezze, cerca di vedere e
mostrare le cose da più punti di vista, di notare i dettagli e percepire le
sfumature, non inclina ai giudizi sommari e soprattutto si munisce di una dote
fondamentale: la capacità di nutrire dubbi, di ascoltare altre ipotesi in ogni
momento, di accoglierle e di mettere in discussione con intelligenza le proprie
certezze, di moltiplicarsi e di allargare i propri orizzonti. Consapevoli o
meno, anche oggi, siamo tutti, chi più chi meno (ma anche, ahimè, molti chi per
niente), platonici. La conoscenza viene prima dell’etica e anche della
politica, e non può non influenzarle. Ed è con essa, presto o tardi, che
dobbiamo fare i conti, anche nelle nostre convinzioni più radicate, i
“pregiudizi”, che sono solo l’ebete adattamento conformistico tipico di chi,
chiuso in una botte di ferro, accetta l’apparente in forma irriflessa. O i
nostri valori si piegano alla verità, o la verità si piega ai valori: delle due
la seconda si è sempre rivelata la soluzione più violenta ed oscurantista.
Per
Platone il grado più basso della conoscenza è l’eikasía (la congettura, l’apparenza) cui segue la pistis (la credenza): entrambi i gradi appartengono
agli individui non discriminanti sotto il profilo logico, non intuitivi e dominati
essenzialmente dai sensi e dalla doxa
(l’opinione). Per uscire dal mondo dell’opinione (sempre mutevole e, come dice
la parola stessa, opinabile), bisogna ascendere a quello dell’epistéme (la scienza, la conoscenza).
Era questo l’insegnamento che Platone applicava nella sua Accademia. Questo metodo
è esposto anche nel suo maggior scritto, noto come Repubblica, ma che meglio sarebbe chiamare col suo titolo originale
greco Politéia, ossia il miglior
sistema politico, quello che ha a che fare con l’interiorità della comunità,
mentre tutti gli altri regimi sono fazioni, governi del disaccordo. L’Accademia
non era solo un posto dove tutti insieme si faceva filosofia, dove si discuteva
per lungo tempo e insieme tra amici (e amiche) scelti, su argomenti e questioni
in ogni campo. Non era solo semplicemente una scuola, in cui regnava la libertà
di pensiero e dove ciascuno poteva tenere corsi sulle materie di cui era
competente. Il suo scopo principale, come già era stato per la scuola di
Pitagora (di cui si voleva che l’Accademia fosse la diretta erede), era la
formazione di politici.
Platone nella sua Accademia,
xilografia da un dipinto di Carl Johan Wahlbom (1810-1858)
in
“Svenska Familj-Journalen”, vol. 18, fasc.
3, 1879, p. 73
Il suo programma formativo era fondato sul metodo dialettico, l’arte del dibattimento speculativo che, superando le ipotesi, innalza la mente immersa nell’ignoranza e la eleva dalle opinioni volgari alla salda conoscenza del vero. Chi non è capace di un ragionamento dialettico, vale a dire chi non è in grado di rendere ragione di qualche cosa né a se stesso né a un altro, manca d’intelligenza ed è schiavo del mondo, immerso in una “melma barbarica”, preda di chiunque, in quel momento e in un dato luogo, esercita il potere. La conoscenza, al contrario, è un bene che salva e che rende l’uomo, in quanto essere pensante, libero e indipendente.
Se l’uomo
invece è misura di tutte le cose, come pensavano i sofisti al tempo di Platone
e come è nell’epoca moderna, i saperi, tutti i saperi, possono essere corrotti
da qualsiasi scopo. La dialettica, la discussione (il dialegesthai, da cui deriva il nome “dialettica”) non usata
giustamente può diventare un gioco mentale e quel che è peggio un gioco in cui
esercitare il potere per i propri scopi. Se la dialettica pura è uno scioglimento
dalle catene, la sua degenerazione ne aggiunge delle nuove. Questa
degenerazione, che non è arte (techne)
ma solo lusinga, è chiamata da Platone “retorica”. Oggi per noi è sinonimo di
“discorso vuoto”, ma ai tempi di Atene era l’eloquenza utilizzata per
raccoglier voti nelle assemblee pubbliche (e nei tribunali), un’affinata forma
di discorso.
La politica, così come la
conosciamo, è stata inventata nell’antica Grecia. Idealmente avrebbe dovuto
essere la pubblica e ordinata riflessione, discussione e determinazione delle scelte
nella loro comunità. Il termine deriva da polis (città). Quando
Aristotele (che fu discepolo di Platone da quando aveva 17 anni e fino alla
morte di questi e quindi per venti anni) definisce l’essere umano come zôon
politikon (animale politico) connette due idee che sono fondamentali nel
pensiero greco antico: la prima, che tutti gli esseri umani, diversamente dalle
bestie che possono vivere isolate, vivono in comunità perché non sono
autosufficienti; la seconda, che una delle funzioni principali degli uomini è
quella di partecipare alla vita politica. La politica, dunque, non era solo l’espressione
dei limiti e dei bisogni umani, ma anche il modo più elevato di realizzare l’essenza
dell’essere umano e il miglioramento continuo delle nostre capacità. In quest’ultimo
senso è anche il costante tentativo di ciascuno, dialogando con se stesso e con
i suoi simili, di delineare diversamente la
morfologia del reale in opposizione alle logiche conservatrici del potere e al
comune sentire adattativo che accetta il mondo non perché sia buono o giusto in
sé, ma perché, per apatia e indifferenza, assume che non possa essere altro da
quello che è. Nel primo senso, la realizzazione dell’essenza, mira alla
formazione delle anime.
Assieme
alla politica nasce la retorica: l’utilizzo della parola e del discorso non più
fondato sulla conoscenza ma sul potere della persuasione. Non è un’arte come la
dialettica, ma solo pratica ed abilità. Non ha un’utilità come la prima, anzi è
dannosa dal momento che, negando la verità, nega anche la giustizia. Il primo è
un discorso corretto, il secondo è soltanto convincente. La retorica essendo
volta alla persuasione spesso porta ad oscurare la correttezza dell’argomentazione
privilegiando gli argomenti più idonei a ingenerare il convincimento dell’uditorio.
La prima ha il fine di dimostrare come stanno le cose, la seconda di
addomesticare l’uditorio o, come diremmo oggi, di conquistare il consenso
pubblico che procuri immediatamente accesso all’influenza politica e alla
conseguente occupazione del potere politico, finalizzata non al vero e al
giusto, ma al risultato e all’utile di qualcuno. La retorica, per Platone, è la
contraffazione dell’arte di rendere giustizia. Esiste anche una retorica che
per Platone è “la vera retorica” e che è semplicemente l’argomentazione adatta
alla migliore esposizione di ciò che è vero e che è legittima quando ha un
intento educativo, ma di essa qui non ci occuperemo.
Sono
idee – ne converrete – che ci possono essere utili anche oggi nell’agire
politico. Se ne possono aggiungere altre, o sfumature delle precedenti idee,
sostenute dai detrattori della retorica, a partire dallo stesso Platone, sull’incompatibilità
tra il metodo filosofico della dialettica e la retorica propria dei parolai, demagoghi
e populisti. Sono quelle che poggiano sui postulati che la prima è razionale e
dirige i suoi argomenti nel campo della logica, la retorica è irrazionale e si
rivolge alla folla degli individui; la dialettica è bi- e multilaterale, la
retorica è fondamentalmente unilaterale perché non richiede discussione ma
consenso acritico (oggi diremmo che si appaga di un like); la prima è aperta alla critica, la seconda la aborre e, se
le è possibile, tenta di eliminarla con ogni mezzo; la dialettica richiede uno
scambio fecondo tra i suoi interlocutori, la retorica è un’attività sterile dal
punto di vista della ricerca della verità e della conoscenza; la dialettica
dichiara i suoi metodi, la retorica cerca di nasconderli; la prima è espressiva
di coscienze che si confrontano alla pari, la seconda è manipolatrice delle
coscienze altrui; l’una è sincera e spontanea, l’altra, al contrario, è un
imbroglio e una distorsione del linguaggio; la prima può anche dire cose
sgradevoli, la cruda verità, la retorica non dice mai nulla che possa mettere
il popolo contro di essa, ma dice solo cose che possano piacere agli elettori; la
dialettica rende migliori gli uomini, la seconda è amorale; la prima si serve
della ragione e della conoscenza, la seconda è serva di preconcetti ed
emotività. La retorica in breve è un insieme di artifici, menzogne, frodi, fallacie,
forme vuote, apparenze, il belletto con cui si ammantano gli interessi più
biechi. Compromette le fondamenta della politica, permettendo di ingannare il
popolo, e favorisce una strisciante tirannia. Ma come spiega Socrate nel Gorgia, coloro che sanno non saranno mai
persuasi da un retore.
Un
osservatore acuto si sarà accorto che oggi il discorso retorico, che
sostanzialmente celebra o denigra e di rado argomenta, non vive soltanto nella
propaganda politica, ma anche nel discorso pubblicitario, rivolto a tessere l’elogio
di un certo prodotto per persuadere il pubblico della sua bontà e indurlo all’acquisto.
Quando parliamo di pubblico, parliamo di moltitudine, ossia di una folla
indifferenziata. È ad essa che si rivolge la parola ridotta a slogan e merce,
quand’anche non a volgarità. E così che disoccupazione diventa “flessibilità”,
lavoro nero “economia sommersa”, sfruttamento “legge di mercato”, licenziamenti
“ottimizzazione delle dimensioni aziendali”, straniero “clandestino”… e ci rende sempre più segregati dalla realtà,
dall’altro, da noi stessi… Piegato agli usi e agli abusi del potere, il
pensiero unico esercita
la sua signoria totale in un vuoto ontologico-morale, la cui potenza su persone
cognitivamente immature è annichilente anche nei confronti di coloro che amano
il sapere (letteralmente i filo-sofi).
Non sono sicuro se il parallelo
che sto per fare valga o meno. Innanzitutto perché è un accostamento che
elude ben oltre due millenni e vanno fatte salve, ovviamente, tutte le
diversità, tra una società premoderna com’era quella ateniese del V/IV secolo
a.C. e una moderna società complessa quale la nostra.
Se leggo che, secondo più ricerche, nella classifica mondiale
dell’analfabetismo funzionale il nostro paese è al vertice perché circa la metà
della popolazione italiana è funzionalmente analfabeta, vale a dire che è in grado di scrivere e
leggere un testo ma è incapace di comprendere il contenuto di una questione, mi domando
innanzitutto cosa si nasconda sotto l’espressione ipocritamente retorica di
“analfabeta funzionale”. Una definizione formalmente cortese di quelli che non
capiscono niente o capiscono quello che vogliono loro sulla base di una o due
parole che attirano la loro attenzione? che credono alle cose più assurde
purché servano a rafforzare le loro opinioni e i loro pregiudizi? di quelli che
tirano conclusioni in un attimo, con sicumera, su qualunque argomento,
soprattutto su temi di spaventosa vastità e di abissale profondità? di quelli
che attribuiscono ad ogni loro minuscola esperienza diretta valore di verità
universale? di quelli a cui interessa solo insultare e mai discutere? di quei
livorosi con la bava alla bocca pronti ad esaltare chiunque offra loro un
bersaglio su cui scaricare le loro frustrazioni e travasi di bile? di quelli
che per qualunque cosa c’è un complotto universale che spiega tutto? di quelli
che non sanno seguire un filo logico?
Tante domande ma un’unica
risposta con una sola definizione e qualche suo sinonimo. Dal momento che la
questione riguarda anche la massa dei decisori, l’elettorato, gli americani a questo
proposito sono più diretti ed espliciti. Ecco perché un noto polemista, David
Harsanyi, lo scorso maggio, ha aperto una discussione sul Washington Post con un articolo
intitolato “We must weed out ignorant Americans from the
electorate”. Estirpare il voto degli ignoranti può sembrare un argomento a
prima vista razionale, ma in ultima analisi insostenibile. Dovrebbe invece essere
un dovere civico sottrarli all’ignoranza. La patente per poter votare è
certamente un’assurdità, ma anche gli elettori che non sanno un accidente e che
danno retta al populista totalitario di turno non sono una faccenda da prendere
alla leggera, ma un problema enorme sul quale occorre far qualcosa.
Dietro l’analfabetismo, sfilano populismo,
bufale rampanti, distrazioni di massa, benaltrismo e complottismi
d’ogni tipo che fanno presa su un elettorato chiamato invece a decidere
questioni fondamentali, a partire dal governo dei territori per finire al destino
dell’Europa, passando dall’assetto costituzionale italiano al sistema elettorale.
Purtroppo l’analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un
mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e
mistificazioni. I voti vengono pilotati da demagoghi bravi a far leva
sull’irrazionalità degli italiani, in particolare alimentando e cavalcando il
loro odio verso presunti nemici oppure sfoderando promesse irrealistiche,
puntualmente destinate a non essere mantenute, come l’attuale mito della
“governabilità”, mito paradossalmente antidemocratico perché volto in realtà a
restringere la partecipazione popolare. E sull’odio: cosa c’è di logico in
esso? il nemico non è chi ha fame ma chi affama, chi getta nella disperazione i
popoli e non chi è disperato, chi costringe gli esseri umani a fuggire, non chi
fugge; è il massimo dell’opera della retorica del potere quando si crede che il
nemico sia chi sta più in basso di noi e non chi sta sopra di noi.
Secondo
Socrate “c’è un solo bene: il sapere. E un solo male: l’ignoranza”.
E vengo, finalmente, al
confronto che avevo promesso di fare. Se penso alla percentuale del 47% di
analfabetismo funzionale e all’altra bella fetta di popolazione capace di
capire questioni solo molto semplici, mi viene in mente il processo
contro Socrate, che fu uno dei primi processi “politici”, un modo alquanto
criminale di esercitare, attraverso la legalità e il principio maggioritario,
un controllo sul pensiero difforme. Un disturbante critico del conformismo
politico e della vita politica della comunità fu giudicato da cinquecento
cittadini tirati a sorte.
Jacques-Louis David, La morte di Socrate, olio su tela, 1787, Metropolitan Museum of Art, New York |
È un
bell’esempio del fastidio e della molestia in una “opinione pubblica” paga dei
suoi valori e delle sue certezze e pronta a difendere gli uni e le altre con la
forza del proprio essere “maggioranza”, annientando anche voci critiche
importanti, che, più razionalmente, si sarebbero dovute considerare una risorsa.
Si rincuora stringatamente Voltaire nel VII capitolo del Trattato sulla tolleranza quando scrive: “Sappiamo che in un primo
momento ebbe duecentoventi voti a favore. Il tribunale dei ‘Cinquecento’ aveva
dunque duecentoventi filosofi: è molto”.
La prima maggioranza fu per la colpevolezza. La seconda
maggioranza ancor più schiacciante, trecentosessanta voti, fu per la pena di
morte con la cicuta. Certamente per la provocazione con cui Socrate propose al
tribunale come pena per se stesso una pensione statale a vita per i suoi meriti
nei confronti della polis come
insegnante. Socrate è forse il più terribile esempio che si possa addurre
contro l’intolleranza (ignorante) della maggioranza (ignorante e
semi-ignorante) verso la libertà di parola e l’azione dialettica, ossia, più o
meno, verso la regola del dialogo e l’esercizio della coscienza critica.
Se il principio maggioritario fosse solo un principio utile per il governo o anche un principio buono e giusto i Greci non seppero rispondere. Determinarono per primi tuttavia un problema le cui soluzioni hanno per il quesito un certo valore: il problema della capacità intellettuale della moltitudine. Che, come abbiamo visto, è un problema delicato e ha una china scivolosa. Senofonte nei suoi Ricordi dedicati a Socrate a proposito della sua attività filosofica e del suo rifiuto ad assumere incarichi pubblici ci riferisce che il filosofo riteneva di fare più per la città, invece che impegnarsi come singolo nell’agone politico, nello sforzarsi di rendere capaci di fare politica il più grande numero possibile di esseri umani. Dunque, nessun elitismo, bensì l’impegno faticoso di accrescere la capacità di intendere e di valutare delle persone per poter finalmente scegliere consapevolmente, ovvero autodeterminarsi, cioè – diremmo oggi – in una sempre più diffusa ed efficace educazione politica che dovrebbe essere un requisito etico posto a fondamento della politica. Il proposito è arduo: la ricostruzione della politica come educazione o cura delle anime, di cui la folla non è certo esperta a farle diventare migliori. La controprova della correttezza di questa impostazione ci viene dal dilagare e dalle travolgenti, e a prima vista inopinate, fortune e seduzioni degli odierni movimenti oscurantisti e antiegualitari, i quali conseguono la maggioranza (e talvolta addirittura prendono il potere), attraverso una vasta, capillare ed efficace diseducazione di massa resa possibile nelle società cosiddette avanzate o complesse dalla potenza, oggi illimitata, degli strumenti di comunicazione e di manipolazione delle menti attraverso stereotipi e paure (sia nelle società dove forte è la presa dell’oscurantismo arcaico a base religiosa di movimenti anche elettoralmente vincenti sia nelle società dove le politiche identitarie innalzano muri in un mondo globalizzato dove manca la consapevolezza cosmopolitica).
La ragione per cui Platone condanna severamente la democrazia è che
questa è egualitaria, cioè mette sullo stesso piano coloro che sanno e coloro
che non sanno. Non è molto diversa dalla ragione per cui, nel giugno del 2015, Umberto Eco, durante un
incontro all’università di Torino, a una domanda di un giornalista, criticava Facebook, dicendo tra l’altro questo: “I
social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano
solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora
hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli
imbecilli”. Ai tempi di Socrate e Platone gli Ateniesi si riunivano
nell’agorà. Agorà viene da ageirô,
“raccogliere insieme”, e l’agorà era il luogo aperto in cui i Greci si
radunavano pubblicamente non solo per il mercato (agorazô significa
“comprare”) ma anche luogo di assemblea politica per discutere gli affari della
città (agoreuô significa “parlare pubblicamente”). Non è forse Facebook l’agorà contemporanea? un luogo
non troppo diverso dalla piazza di Atene dove i comuni Ateniesi, per natura
così inclini alla conversazione, si levavano tutti a parlare, fabbri e marinai,
ricchi e poveri, calzolai e commercianti, competenti e incompetenti, filosofi e
demagoghi.
Orazione funebre di Pericle nell'agorà di Atene, illustrazione di Philipp von Foltz, 1852 |
La democrazia non rispetta certo la competenza e la preparazione ed è spesso brodo di coltura della tirannide, come mostra l’origine dei totalitarismi moderni, quasi tutti nati da movimenti di popolo e di frequente legittimati da regolari elezioni.
Ma è anche vero che la
critica platonica della democrazia suppone un concetto di filosofia in cui l’opinione
non ha alcun valore, in cui cioè conta solo la scienza, intesa come conoscenza
sicura della verità e del bene. Questa concezione della filosofia non era
quella professata dai sofisti e dai retori del suo tempo e nemmeno da
Aristotele, il quale, pur essendo propriamente un conservatore, considerava
tuttavia la democrazia come una specie di male minore tra i regimi più diffusi
e più facilmente realizzabili, precorrendo in tal modo il famoso giudizio di
Churchill: “la democrazia è la peggior forma di governo possibile, eccezion
fatta per tutte le altre”.
Occorre riconoscere al
filosofo greco il merito di aver individuato che la politica sarebbe certamente
migliore se ciascuno adottasse l’impegno di sottoporre al vaglio della ragione
ogni suo pensiero, ogni sua scelta e azione. Anche se le scelte possono essere
sbagliate rispetto all’oggetto (capiterà di scambiare per bene quello che è
male), mai saranno errate le scelte iniziali che sono di agire nel modo
reputato giusto attraverso la consapevolezza e l’esercizio del senso critico.
So bene che il mio utilizzo
delle categorie del vero, del bene, del giusto, al modo degli Antichi, possa
essere irriso dai più e che meglio sarebbe stato se avessi usato categorie più
convenzionalmente accettate. Ma queste non sono categorie “religiose” o
“moralistiche” come si potrebbe pensare, bensì categorie filosofiche che
costituiscono gli assoluti, mentre il
meglio o il peggio, il più o il meno, l’imperfetto piuttosto che il niente, sono
i relativi. Occorre preliminarmente
la conoscenza dell’Assoluto, in
quanto il relativo è tale solo in
relazione all’assoluto, mentre il pensiero dominante ritiene di poter
conoscere il relativo senza conoscere l’assoluto.
In questa situazione
paradossale, in cui la dialettica si rivolge ai pochi e alle minoranze che
distinguono apertamente ciò che è il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il
vero e il falso, mentre la retorica, basata su instabili opinioni, non molla la
sua presa sulla moltitudine e sulla maggioranza narcotizzata, che fare?
È indubbio che le cose grandi
hanno bisogno di tempo e di gruppi ristretti per poter essere apprese e
praticate. Quello che si può fare è creare una rete, un solido network di pensiero di tali percorsi
collettivi strettamente legati a singole battaglie che nascano come strumenti
per la difesa dei diritti civili e sociali. Percorsi dove il dialogo si afferri
solo col parteciparvi, in una mescolanza che non si può dividere, moltiplicando
le minoranze fino al punto di farle diventare se non maggioranze (posto che
ogni minoranza è destinata a diventare tale nell’avvicendarsi dei cicli)
quantomeno elementi importanti nell’agorà
politica, rivendicando le condizioni sociali e politiche che smascherino le
retoriche con le quali il potere si dilunga sui problemi ma non li risolve e
consentano il confronto, che operino per rendere la politica e le sue scelte
partecipate e trasparenti e che coinvolgano sempre, e non solo nelle scadenze
elettorali, i cittadini nel prendere scelte importanti che sostengano il
processo per dare dignità alla vita. Scelte che devono e possono essere
rappresentate dalla creazione di forme di vita alternativa in spazi di
formazione autogestiti. Scelte che si nutrono delle libertà: libertà dalla
povertà, libertà dal bisogno, libertà dalla malattia, libertà dallo sfruttamento, libertà dal sopruso della
criminalità e dalla sopraffazione dei pubblici poteri, libertà dall’ignoranza, libertà dall’altrui pretesa
di imporre convinzioni religiose o morali e di interferire in ambiti
privatissimi e riservati.
Queste scelte che sono anche
luoghi in cui si contrappone non solo un’altra visione del mondo, ma in cui deve
nascere il fermento del confronto con le retoriche imperanti verso una
dimensione nella quale si possa raggiungere un accordo, dopo una radicale messa
in discussione della idoneità dei modelli politici imposti da una democrazia
troppo spesso predisposta alla demagogia.
Questo mi pare possa essere
l’itinerario dischiuso che si apre a quel pensare che è innanzitutto un
ospitare interpretazioni per un passare oltre verso la conoscenza. In questo
senso la politica, come la filosofia, è “scienza regia”, perché col pensiero
non agisce ma esercita la sua autorità sulle altre conoscenze particolari che
hanno la capacità di agire, incidere e sedimentare e che a essa le sono
sottomesse. Questa la concezione classica della politica che ha in sé un enorme
potenziale rivoluzionario perché educa e risveglia la mente. Da essa e da un
passato che non passa vanno riacquisiti i pensieri e le descrizioni delle virtù
se si vuole poter far vivere agli uomini e alle donne contemporanei le modalità
sociali come “luoghi” in cui sia possibile essere felici o quantomeno sia
possibile arginare la “barbarie” dell’odio e dell’ignoranza. Pensieri e
descrizioni esatte e non mistificatorie capaci di nominare, attraverso la
ragione e l’informazione accurata e documentata, questo presente così globale
eppure così frantumato, così estraneo eppure così invadente, così comunicativo
eppure così ingannevole.
Non so, dunque, se questa nuova grande innovazione, o meglio rivolgimento, possa emergere da questi “luoghi” esistenti a fatica e di altri tutti da costruire. Sappiamo che può venire fuori da persone, uomini e donne, degne, che possono costituire un fondamento di una prossima grande pedana sociale da cui innalzarsi, dove educazione, libertà di pensiero e autodeterminazione conducano a una società realmente democratica, dove non prevalgano gli interessi della maggioranza ma, come sarebbe auspicabile, l’interesse generale. Ma verrà fuori: perché alla fine una società ha bisogno di sapere come stanno veramente le cose e cosa può fare.
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