mercoledì 3 agosto 2016

LA DIALETTICA CI RIGUARDA



A L.S., senza la cui “ignoranza”
mai mi sarebbe venuto in mente un tale articolo.


Credo sia molto più bello l’impegno serio rivolto a questi argomenti, quello che si profonde facendo uso dell’arte dialettica e prendendo un’anima adatta nel piantarvi e seminarvi discorsi con conoscenza che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati, che non restino privi di frutto, ma ricchi di seme da cui germoglino altri discorsi ancora in altri uomini, così da rendere immortale questo seme facendo in modo che chi lo possiede attinga al massimo di felicità possibile per un uomo. (Platone, Fedro, 276 E-277 A)


Secondo quella che piace a me e ad altri studiosi definire la Tradizione unica, cioè le verità della filosofia perenne, una delle virtù senz’altro da praticare è la mansuetudine (praiótēs), a sua volta una delle sotto-virtù della virtù cardinale chiamata fortezza (andreía). Oggi con sinonimi più in voga si preferisce chiamarla gentilezza, mitezza o tolleranza, allo stesso modo in cui, sempre odiernamente, invece di fortezza si predilige la locuzione “forza d’animo”.
Per quanto si cerchi la maestrìa che non è altro se non la padronanza di se stessi, vale a dire la capacità di aggiustare e rettificare quelli che sono i nostri pregiudizi, preconcetti e opinioni per sentito dire, sappiamo bene che non siamo padroni dell’anima del prossimo. Se, avviando un dialogo con un’altra persona, non siamo in grado di convincerla dei suoi errori e della bontà delle nostre ragioni, siamo noi che non siamo stati capaci di spiegarci bene, adattandoci al suo livello di coscienza, e non lui che non ci ha capito. O, più in generale e di solito, abbiamo fatto finta di non capire che la persona a cui ci siamo rivolti era del tutto inadatta al dialogo. Dobbiamo pertanto rimproverare solo noi stessi ed è del tutto inutile irritarsi con l’altro. Occorre renderci conto che i suoi errori sono delle fissazioni.
Vanno davvero chiamate così: fissazioni, perché un neurobiologo vi dirà che l’uomo medio elabora circa 60.000 pensieri al giorno. Il che è sorprendente! Ma altrettanto desolante è che la quasi totalità di questi sono quelli di ieri. Ognuno di noi è, malinconicamente, un fascio di riflessi condizionati, di nervi costantemente scatenati da persone e circostanze che producono esiti prevedibili, un organetto meccanico che troppo spesso ripete il medesimo ritornello. Un fisico vi direbbe che colmare la distanza tra apparenza e scienza è uno sforzo enorme. Un metafisico – dell’Occidente o dell’Oriente non importa – vi spiegherebbe che l’apparenza, l’opinione, l’ignoranza, l’illusione, sono tutti veli che celano il piano della Realtà e della Libertà.
Ciononostante vi sono sempre stati comunque uomini che anelano alla conoscenza. Persone che non si limitano alle apparenze, né tantomeno a pensare sempre quelli che credono essere i propri pensieri, ma che spesso, nel modo rappresentato da Orwell nel Grande Fratello, sono invece controllati e manipolati. Persone che vogliono prestare attenzione a tutto quanto viene di volta in volta e da altri propri simili pensato nel tentativo di scorgere direzioni, orientamenti, sensibilità, svolte, trasformazioni, crescite. Persone che sono dotate di grande apertura e di capacità di ascoltare e di interloquire, che non credono di essere possessori della verità, ma che, privi di qualsiasi insulsa tracotanza, pensano che alla verità e al bene ci si possa avvicinare dandosi modi di vita realmente liberi improntati alla partecipazione, trasparenza e onestà intellettuale e assegnando per primi al loro movimento di hillmaniana “fare anima” un sistema “inclusivo”. Proprio come salmoni che risalgono la corrente contraria e avversa dell’attuale e diffuso mainstream che è la crescente tentazione di chiudersi, di ripiegarsi nelle consuete abitudini e in un’identità, di restringere il proprio mondo a un insieme circoscritto e autoreferenziale, falsamente rassicurante e criminalmente quasi tribale di comode coordinate che li istigano a parlare anche di cose di cui nulla conoscono.
Ci sono invece persone che cercano di costruirsi, che si interrogano sul proprio rapporto con la società e il mondo che li circondano e che si chiedono cosa possono fare per primi per cambiarli e migliorarli, mettendo a confronto esperienze, stili, convinzioni, tesi e giungendo, dopo molte discussioni, a conclusioni e, ancor meglio, a conseguenti azioni condivise, realizzando un perfetto accordo tra pensiero e opere.
Da sempre il pensiero filosofico – e quello politico che, idealmente, ne dovrebbe essere la sua espressione pratica più alta – trae la propria forza dalla capacità di integrare una pluralità di forme e attività di pensiero, senza chiudersi nelle mura di un pensiero unico, ma spalancando le porte della propria mente e scardinando molti dei riflessi ben condizionati che ci fanno guardare le cose in modo convenzionale e ottuso. È una disciplina che gli Antichi, meno distratti e molto meno manipolati di quanto noi oggi siamo, avevano già investigato a fondo. Gli Antichi (che come già detto quasi sempre avevano ragione) avevano compreso che la conoscenza non è solo un patrimonio individuale ma anche comunitario. Non è fatta solo di un lavoro singolo, di ricerca e studio, di riflessione e meditazione, ma anche di confronto e dialogo, di comunanza di vita: la nostra stessa cultura “occidentale” o addirittura “italiana” include elementi significativi che provengono da altre culture. Il vero “investigatore” (della verità) scompiglia le carte delle nostre rassicuranti e ottuse certezze, cerca di vedere e mostrare le cose da più punti di vista, di notare i dettagli e percepire le sfumature, non inclina ai giudizi sommari e soprattutto si munisce di una dote fondamentale: la capacità di nutrire dubbi, di ascoltare altre ipotesi in ogni momento, di accoglierle e di mettere in discussione con intelligenza le proprie certezze, di moltiplicarsi e di allargare i propri orizzonti. Consapevoli o meno, anche oggi, siamo tutti, chi più chi meno (ma anche, ahimè, molti chi per niente), platonici. La conoscenza viene prima dell’etica e anche della politica, e non può non influenzarle. Ed è con essa, presto o tardi, che dobbiamo fare i conti, anche nelle nostre convinzioni più radicate, i “pregiudizi”, che sono solo l’ebete adattamento conformistico tipico di chi, chiuso in una botte di ferro, accetta l’apparente in forma irriflessa. O i nostri valori si piegano alla verità, o la verità si piega ai valori: delle due la seconda si è sempre rivelata la soluzione più violenta ed oscurantista.
Per Platone il grado più basso della conoscenza è l’eikasía (la congettura, l’apparenza) cui segue la pistis (la credenza): entrambi i gradi appartengono agli individui non discriminanti sotto il profilo logico, non intuitivi e dominati essenzialmente dai sensi e dalla doxa (l’opinione). Per uscire dal mondo dell’opinione (sempre mutevole e, come dice la parola stessa, opinabile), bisogna ascendere a quello dell’epistéme (la scienza, la conoscenza). Era questo l’insegnamento che Platone applicava nella sua Accademia. Questo metodo è esposto anche nel suo maggior scritto, noto come Repubblica, ma che meglio sarebbe chiamare col suo titolo originale greco Politéia, ossia il miglior sistema politico, quello che ha a che fare con l’interiorità della comunità, mentre tutti gli altri regimi sono fazioni, governi del disaccordo. L’Accademia non era solo un posto dove tutti insieme si faceva filosofia, dove si discuteva per lungo tempo e insieme tra amici (e amiche) scelti, su argomenti e questioni in ogni campo. Non era solo semplicemente una scuola, in cui regnava la libertà di pensiero e dove ciascuno poteva tenere corsi sulle materie di cui era competente. Il suo scopo principale, come già era stato per la scuola di Pitagora (di cui si voleva che l’Accademia fosse la diretta erede), era la formazione di politici.
Platone nella sua Accademia,
xilografia da un dipinto di Carl Johan Wahlbom (1810-1858)
in “Svenska Familj-Journalen”, vol. 18, fasc. 3, 1879, p. 73

Il suo programma formativo era fondato sul metodo dialettico, l’arte del dibattimento speculativo che, superando le ipotesi, innalza la mente immersa nell’ignoranza e la eleva dalle opinioni volgari alla salda conoscenza del vero. Chi non è capace di un ragionamento dialettico, vale a dire chi non è in grado di rendere ragione di qualche cosa né a se stesso né a un altro, manca d’intelligenza ed è schiavo del mondo, immerso in una “melma barbarica”, preda di chiunque, in quel momento e in un dato luogo, esercita il potere. La conoscenza, al contrario, è un bene che salva e che rende l’uomo, in quanto essere pensante, libero e indipendente.
Se l’uomo invece è misura di tutte le cose, come pensavano i sofisti al tempo di Platone e come è nell’epoca moderna, i saperi, tutti i saperi, possono essere corrotti da qualsiasi scopo. La dialettica, la discussione (il dialegesthai, da cui deriva il nome “dialettica”) non usata giustamente può diventare un gioco mentale e quel che è peggio un gioco in cui esercitare il potere per i propri scopi. Se la dialettica pura è uno scioglimento dalle catene, la sua degenerazione ne aggiunge delle nuove. Questa degenerazione, che non è arte (techne) ma solo lusinga, è chiamata da Platone “retorica”. Oggi per noi è sinonimo di “discorso vuoto”, ma ai tempi di Atene era l’eloquenza utilizzata per raccoglier voti nelle assemblee pubbliche (e nei tribunali), un’affinata forma di discorso.
La politica, così come la conosciamo, è stata inventata nell’antica Grecia. Idealmente avrebbe dovuto essere la pubblica e ordinata riflessione, discussione e determinazione delle scelte nella loro comunità. Il termine deriva da polis (città). Quando Aristotele (che fu discepolo di Platone da quando aveva 17 anni e fino alla morte di questi e quindi per venti anni) definisce l’essere umano come zôon politikon (animale politico) connette due idee che sono fondamentali nel pensiero greco antico: la prima, che tutti gli esseri umani, diversamente dalle bestie che possono vivere isolate, vivono in comunità perché non sono autosufficienti; la seconda, che una delle funzioni principali degli uomini è quella di partecipare alla vita politica. La politica, dunque, non era solo l’espressione dei limiti e dei bisogni umani, ma anche il modo più elevato di realizzare l’essenza dell’essere umano e il miglioramento continuo delle nostre capacità. In quest’ultimo senso è anche il costante tentativo di ciascuno, dialogando con se stesso e con i suoi simili, di delineare diversamente la morfologia del reale in opposizione alle logiche conservatrici del potere e al comune sentire adattativo che accetta il mondo non perché sia buono o giusto in sé, ma perché, per apatia e indifferenza, assume che non possa essere altro da quello che è. Nel primo senso, la realizzazione dell’essenza, mira alla formazione delle anime.
Assieme alla politica nasce la retorica: l’utilizzo della parola e del discorso non più fondato sulla conoscenza ma sul potere della persuasione. Non è un’arte come la dialettica, ma solo pratica ed abilità. Non ha un’utilità come la prima, anzi è dannosa dal momento che, negando la verità, nega anche la giustizia. Il primo è un discorso corretto, il secondo è soltanto convincente. La retorica essendo volta alla persuasione spesso porta ad oscurare la correttezza dell’argomentazione privilegiando gli argomenti più idonei a ingenerare il convincimento dell’uditorio. La prima ha il fine di dimostrare come stanno le cose, la seconda di addomesticare l’uditorio o, come diremmo oggi, di conquistare il consenso pubblico che procuri immediatamente accesso all’influenza politica e alla conseguente occupazione del potere politico, finalizzata non al vero e al giusto, ma al risultato e all’utile di qualcuno. La retorica, per Platone, è la contraffazione dell’arte di rendere giustizia. Esiste anche una retorica che per Platone è “la vera retorica” e che è semplicemente l’argomentazione adatta alla migliore esposizione di ciò che è vero e che è legittima quando ha un intento educativo, ma di essa qui non ci occuperemo.
Sono idee – ne converrete – che ci possono essere utili anche oggi nell’agire politico. Se ne possono aggiungere altre, o sfumature delle precedenti idee, sostenute dai detrattori della retorica, a partire dallo stesso Platone, sull’incompatibilità tra il metodo filosofico della dialettica e la retorica propria dei parolai, demagoghi e populisti. Sono quelle che poggiano sui postulati che la prima è razionale e dirige i suoi argomenti nel campo della logica, la retorica è irrazionale e si rivolge alla folla degli individui; la dialettica è bi- e multilaterale, la retorica è fondamentalmente unilaterale perché non richiede discussione ma consenso acritico (oggi diremmo che si appaga di un like); la prima è aperta alla critica, la seconda la aborre e, se le è possibile, tenta di eliminarla con ogni mezzo; la dialettica richiede uno scambio fecondo tra i suoi interlocutori, la retorica è un’attività sterile dal punto di vista della ricerca della verità e della conoscenza; la dialettica dichiara i suoi metodi, la retorica cerca di nasconderli; la prima è espressiva di coscienze che si confrontano alla pari, la seconda è manipolatrice delle coscienze altrui; l’una è sincera e spontanea, l’altra, al contrario, è un imbroglio e una distorsione del linguaggio; la prima può anche dire cose sgradevoli, la cruda verità, la retorica non dice mai nulla che possa mettere il popolo contro di essa, ma dice solo cose che possano piacere agli elettori; la dialettica rende migliori gli uomini, la seconda è amorale; la prima si serve della ragione e della conoscenza, la seconda è serva di preconcetti ed emotività. La retorica in breve è un insieme di artifici, menzogne, frodi, fallacie, forme vuote, apparenze, il belletto con cui si ammantano gli interessi più biechi. Compromette le fondamenta della politica, permettendo di ingannare il popolo, e favorisce una strisciante tirannia. Ma come spiega Socrate nel Gorgia, coloro che sanno non saranno mai persuasi da un retore.
Un osservatore acuto si sarà accorto che oggi il discorso retorico, che sostanzialmente celebra o denigra e di rado argomenta, non vive soltanto nella propaganda politica, ma anche nel discorso pubblicitario, rivolto a tessere l’elogio di un certo prodotto per persuadere il pubblico della sua bontà e indurlo all’acquisto. Quando parliamo di pubblico, parliamo di moltitudine, ossia di una folla indifferenziata. È ad essa che si rivolge la parola ridotta a slogan e merce, quand’anche non a volgarità. E così che disoccupazione diventa “flessibilità”, lavoro nero “economia sommersa”, sfruttamento “legge di mercato”, licenziamenti “ottimizzazione delle dimensioni aziendali”, straniero “clandestino”… e ci rende sempre più segregati dalla realtà, dall’altro, da noi stessi… Piegato agli usi e agli abusi del potere, il pensiero unico esercita la sua signoria totale in un vuoto ontologico-morale, la cui potenza su persone cognitivamente immature è annichilente anche nei confronti di coloro che amano il sapere (letteralmente i filo-sofi).
Non sono sicuro se il parallelo che sto per fare valga o meno. Innanzitutto perché è un accostamento che elude ben oltre due millenni e vanno fatte salve, ovviamente, tutte le diversità, tra una società premoderna com’era quella ateniese del V/IV secolo a.C. e una moderna società complessa quale la nostra.
Se leggo che, secondo più ricerche, nella classifica mondiale dell’analfabetismo funzionale il nostro paese è al vertice perché circa la metà della popolazione italiana è funzionalmente analfabeta, vale a dire che è in grado di scrivere e leggere un testo ma è incapace di comprendere il contenuto di una questione, mi domando innanzitutto cosa si nasconda sotto l’espressione ipocritamente retorica di “analfabeta funzionale”. Una definizione formalmente cortese di quelli che non capiscono niente o capiscono quello che vogliono loro sulla base di una o due parole che attirano la loro attenzione? che credono alle cose più assurde purché servano a rafforzare le loro opinioni e i loro pregiudizi? di quelli che tirano conclusioni in un attimo, con sicumera, su qualunque argomento, soprattutto su temi di spaventosa vastità e di abissale profondità? di quelli che attribuiscono ad ogni loro minuscola esperienza diretta valore di verità universale? di quelli a cui interessa solo insultare e mai discutere? di quei livorosi con la bava alla bocca pronti ad esaltare chiunque offra loro un bersaglio su cui scaricare le loro frustrazioni e travasi di bile? di quelli che per qualunque cosa c’è un complotto universale che spiega tutto? di quelli che non sanno seguire un filo logico?
Tante domande ma un’unica risposta con una sola definizione e qualche suo sinonimo. Dal momento che la questione riguarda anche la massa dei decisori, l’elettorato, gli americani a questo proposito sono più diretti ed espliciti. Ecco perché un noto polemista, David Harsanyi, lo scorso maggio, ha aperto una discussione sul Washington Post con un articolo intitolato “We must weed out ignorant Americans from the electorate”. Estirpare il voto degli ignoranti può sembrare un argomento a prima vista razionale, ma in ultima analisi insostenibile. Dovrebbe invece essere un dovere civico sottrarli all’ignoranza. La patente per poter votare è certamente un’assurdità, ma anche gli elettori che non sanno un accidente e che danno retta al populista totalitario di turno non sono una faccenda da prendere alla leggera, ma un problema enorme sul quale occorre far qualcosa.
Dietro l’analfabetismo, sfilano populismo, bufale rampanti, distrazioni di massa, benaltrismo e complottismi d’ogni tipo che fanno presa su un elettorato chiamato invece a decidere questioni fondamentali, a partire dal governo dei territori per finire al destino dell’Europa, passando dall’assetto costituzionale italiano al sistema elettorale. Purtroppo l’analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni. I voti vengono pilotati da demagoghi bravi a far leva sull’irrazionalità degli italiani, in particolare alimentando e cavalcando il loro odio verso presunti nemici oppure sfoderando promesse irrealistiche, puntualmente destinate a non essere mantenute, come l’attuale mito della “governabilità”, mito paradossalmente antidemocratico perché volto in realtà a restringere la partecipazione popolare. E sull’odio: cosa c’è di logico in esso? il nemico non è chi ha fame ma chi affama, chi getta nella disperazione i popoli e non chi è disperato, chi costringe gli esseri umani a fuggire, non chi fugge; è il massimo dell’opera della retorica del potere quando si crede che il nemico sia chi sta più in basso di noi e non chi sta sopra di noi.
Secondo Socrate “c’è un solo bene: il sapere. E un solo male: l’ignoranza”.
E vengo, finalmente, al confronto che avevo promesso di fare. Se penso alla percentuale del 47% di analfabetismo funzionale e all’altra bella fetta di popolazione capace di capire questioni solo molto semplici, mi viene in mente il processo contro Socrate, che fu uno dei primi processi “politici”, un modo alquanto criminale di esercitare, attraverso la legalità e il principio maggioritario, un controllo sul pensiero difforme. Un disturbante critico del conformismo politico e della vita politica della comunità fu giudicato da cinquecento cittadini tirati a sorte. 

 
Jacques-Louis David, La morte di Socrate, olio su tela, 1787, Metropolitan Museum of Art, New York


È un bell’esempio del fastidio e della molestia in una “opinione pubblica” paga dei suoi valori e delle sue certezze e pronta a difendere gli uni e le altre con la forza del proprio essere “maggioranza”, annientando anche voci critiche importanti, che, più razionalmente, si sarebbero dovute considerare una risorsa. Si rincuora stringatamente Voltaire nel VII capitolo del Trattato sulla tolleranza quando scrive: “Sappiamo che in un primo momento ebbe duecentoventi voti a favore. Il tribunale dei ‘Cinquecento’ aveva dunque duecentoventi filosofi: è molto”.

La prima maggioranza fu per la colpevolezza. La seconda maggioranza ancor più schiacciante, trecentosessanta voti, fu per la pena di morte con la cicuta. Certamente per la provocazione con cui Socrate propose al tribunale come pena per se stesso una pensione statale a vita per i suoi meriti nei confronti della polis come insegnante. Socrate è forse il più terribile esempio che si possa addurre contro l’intolleranza (ignorante) della maggioranza (ignorante e semi-ignorante) verso la libertà di parola e l’azione dialettica, ossia, più o meno, verso la regola del dialogo e l’esercizio della coscienza critica.
Se il principio maggioritario fosse solo un principio utile per il governo o anche un principio buono e giusto i Greci non seppero rispondere. Determinarono per primi tuttavia un problema le cui soluzioni hanno per il quesito un certo valore: il problema della capacità intellettuale della moltitudine. Che, come abbiamo visto, è un problema delicato e ha una china scivolosa. Senofonte nei suoi Ricordi dedicati a Socrate a proposito della sua attività filosofica e del suo rifiuto ad assumere incarichi pubblici ci riferisce che il filosofo riteneva di fare più per la città, invece che impegnarsi come singolo nell’agone politico, nello sforzarsi di rendere capaci di fare politica il più grande numero possibile di esseri umani. Dunque, nessun elitismo, bensì l’impegno faticoso di accrescere la capacità di intendere e di valutare delle persone per poter finalmente scegliere consapevolmente, ovvero autodeterminarsi, cioè – diremmo oggi – in una sempre più diffusa ed efficace educazione politica che dovrebbe essere un requisito etico posto a fondamento della politica. Il proposito è arduo: la ricostruzione della politica come educazione o cura delle anime, di cui la folla non è certo esperta a farle diventare migliori. La controprova della correttezza di questa impostazione ci viene dal dilagare e dalle travolgenti, e a prima vista inopinate, fortune e seduzioni degli odierni movimenti oscurantisti e antiegualitari, i quali conseguono la maggioranza (e talvolta addirittura prendono il potere), attraverso una vasta, capillare ed efficace diseducazione di massa resa possibile nelle società cosiddette avanzate o complesse dalla potenza, oggi illimitata, degli strumenti di comunicazione e di manipolazione delle menti attraverso stereotipi e paure (sia nelle società dove forte è la presa dell’oscurantismo arcaico a base religiosa di movimenti anche elettoralmente vincenti sia nelle società dove le politiche identitarie innalzano muri in un mondo globalizzato dove manca la consapevolezza cosmopolitica).  
La ragione per cui Platone condanna severamente la democrazia è che questa è egualitaria, cioè mette sullo stesso piano coloro che sanno e coloro che non sanno. Non è molto diversa dalla ragione per cui, nel giugno del 2015, Umberto Eco, durante un incontro all’università di Torino, a una domanda di un giornalista, criticava Facebook, dicendo tra l’altro questo: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Ai tempi di Socrate e Platone gli Ateniesi si riunivano nell’agorà. Agorà viene da ageirô, “raccogliere insieme”, e l’agorà era il luogo aperto in cui i Greci si radunavano pubblicamente non solo per il mercato (agorazô significa “comprare”) ma anche luogo di assemblea politica per discutere gli affari della città (agoreuô significa “parlare pubblicamente”). Non è forse Facebook l’agorà contemporanea? un luogo non troppo diverso dalla piazza di Atene dove i comuni Ateniesi, per natura così inclini alla conversazione, si levavano tutti a parlare, fabbri e marinai, ricchi e poveri, calzolai e commercianti, competenti e incompetenti, filosofi e demagoghi.
 
Orazione funebre di Pericle nell'agorà di Atene, illustrazione di Philipp von Foltz, 1852

La democrazia non rispetta certo la competenza e la preparazione ed è spesso brodo di coltura della tirannide, come mostra l’origine dei totalitarismi moderni, quasi tutti nati da movimenti di popolo e di frequente legittimati da regolari elezioni.
Ma è anche vero che la critica platonica della democrazia suppone un concetto di filosofia in cui l’opinione non ha alcun valore, in cui cioè conta solo la scienza, intesa come conoscenza sicura della verità e del bene. Questa concezione della filosofia non era quella professata dai sofisti e dai retori del suo tempo e nemmeno da Aristotele, il quale, pur essendo propriamente un conservatore, considerava tuttavia la democrazia come una specie di male minore tra i regimi più diffusi e più facilmente realizzabili, precorrendo in tal modo il famoso giudizio di Churchill: “la democrazia è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre”.
Occorre riconoscere al filosofo greco il merito di aver individuato che la politica sarebbe certamente migliore se ciascuno adottasse l’impegno di sottoporre al vaglio della ragione ogni suo pensiero, ogni sua scelta e azione. Anche se le scelte possono essere sbagliate rispetto all’oggetto (capiterà di scambiare per bene quello che è male), mai saranno errate le scelte iniziali che sono di agire nel modo reputato giusto attraverso la consapevolezza e l’esercizio del senso critico.
So bene che il mio utilizzo delle categorie del vero, del bene, del giusto, al modo degli Antichi, possa essere irriso dai più e che meglio sarebbe stato se avessi usato categorie più convenzionalmente accettate. Ma queste non sono categorie “religiose” o “moralistiche” come si potrebbe pensare, bensì categorie filosofiche che costituiscono gli assoluti, mentre il meglio o il peggio, il più o il meno, l’imperfetto piuttosto che il niente, sono i relativi. Occorre preliminarmente la conoscenza dell’Assoluto, in quanto il relativo è tale solo in relazione all’assoluto, mentre il pensiero dominante ritiene di poter conoscere il relativo senza conoscere l’assoluto.
In questa situazione paradossale, in cui la dialettica si rivolge ai pochi e alle minoranze che distinguono apertamente ciò che è il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso, mentre la retorica, basata su instabili opinioni, non molla la sua presa sulla moltitudine e sulla maggioranza narcotizzata, che fare?
È indubbio che le cose grandi hanno bisogno di tempo e di gruppi ristretti per poter essere apprese e praticate. Quello che si può fare è creare una rete, un solido network di pensiero di tali percorsi collettivi strettamente legati a singole battaglie che nascano come strumenti per la difesa dei diritti civili e sociali. Percorsi dove il dialogo si afferri solo col parteciparvi, in una mescolanza che non si può dividere, moltiplicando le minoranze fino al punto di farle diventare se non maggioranze (posto che ogni minoranza è destinata a diventare tale nell’avvicendarsi dei cicli) quantomeno elementi importanti nell’agorà politica, rivendicando le condizioni sociali e politiche che smascherino le retoriche con le quali il potere si dilunga sui problemi ma non li risolve e consentano il confronto, che operino per rendere la politica e le sue scelte partecipate e trasparenti e che coinvolgano sempre, e non solo nelle scadenze elettorali, i cittadini nel prendere scelte importanti che sostengano il processo per dare dignità alla vita. Scelte che devono e possono essere rappresentate dalla creazione di forme di vita alternativa in spazi di formazione autogestiti. Scelte che si nutrono delle libertà: libertà dalla povertà, libertà dal bisogno, libertà dalla malattia, libertà dallo  sfruttamento, libertà dal sopruso della criminalità e dalla sopraffazione dei pubblici poteri, libertà dall’ignoranza, libertà dall’altrui pretesa di imporre convinzioni religiose o morali e di interferire in ambiti privatissimi e riservati.
Queste scelte che sono anche luoghi in cui si contrappone non solo un’altra visione del mondo, ma in cui deve nascere il fermento del confronto con le retoriche imperanti verso una dimensione nella quale si possa raggiungere un accordo, dopo una radicale messa in discussione della idoneità dei modelli politici imposti da una democrazia troppo spesso predisposta alla demagogia.
Questo mi pare possa essere l’itinerario dischiuso che si apre a quel pensare che è innanzitutto un ospitare interpretazioni per un passare oltre verso la conoscenza. In questo senso la politica, come la filosofia, è “scienza regia”, perché col pensiero non agisce ma esercita la sua autorità sulle altre conoscenze particolari che hanno la capacità di agire, incidere e sedimentare e che a essa le sono sottomesse. Questa la concezione classica della politica che ha in sé un enorme potenziale rivoluzionario perché educa e risveglia la mente. Da essa e da un passato che non passa vanno riacquisiti i pensieri e le descrizioni delle virtù se si vuole poter far vivere agli uomini e alle donne contemporanei le modalità sociali come “luoghi” in cui sia possibile essere felici o quantomeno sia possibile arginare la “barbarie” dell’odio e dell’ignoranza. Pensieri e descrizioni esatte e non mistificatorie capaci di nominare, attraverso la ragione e l’informazione accurata e documentata, questo presente così globale eppure così frantumato, così estraneo eppure così invadente, così comunicativo eppure così ingannevole.  
Non so, dunque, se questa nuova grande innovazione, o meglio rivolgimento, possa emergere da questi “luoghi” esistenti a fatica e di altri tutti da costruire. Sappiamo che può venire fuori da persone, uomini e donne, degne, che possono costituire un fondamento di una prossima grande pedana sociale da cui innalzarsi, dove educazione, libertà di pensiero e autodeterminazione conducano a una società realmente democratica, dove non prevalgano gli interessi della maggioranza ma, come sarebbe auspicabile, l’interesse generale. Ma verrà fuori: perché alla fine una società ha bisogno di sapere come stanno veramente le cose e cosa può fare.


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